Champagne Problems: recensione della commedia natalizia Netflix
Champagne Problems è una commedia romantica Netflix che sa di Natale: un film che non decolla mai e manca di guizzo magico.
C’è un momento, nei film natalizi, in cui tutto dovrebbe vibrare: la neve che cade con la precisione di un set ben oliato, un amore che sboccia con il calore di un camino che non esiste davvero, e una Parigi che — proprio come un vino mal conservato — tenta di sembrare più brillante di quanto sia. Champagne Problems, nuova incursione di Netflix nel territorio sempreverde della rom-com festiva, tenta questa magia con la stessa convinzione di un brindisi fatto a mezzanotte con un bicchiere di bollicine che ha già perso il brio.
Il risultato? Un’opera in cui l’effervescenza rimane promessa, accennata, mai pienamente sprigionata. E proprio in questa distanza tra potenziale e resa si annida la sua più grande “tragedia romantica”: non quella dei protagonisti, ma quella del film stesso.
Champagne Problems: un plot che cammina, ma non danza

Sydney, presunta professionista affilata e cosmopolita, sbarca in Francia per convincere un’antica maison di champagne a consegnare la propria anima — e quindi il proprio marchio — a un fondo d’investimento spietato. È la classica donna di città, definita più dalla rigidezza del suo tailleur che dalla sua interiorità. Dall’altra parte Henri, erede riluttante di un patrimonio enologico che non ha chiesto e che forse neppure merita. È quell’archetipo di uomo “francese da cartolina” che sembra uscito da una guida Lonely Planet scritta di corsa: colto quanto basta, irrequieto quanto serve, irrimediabilmente bello, inevitabilmente vuoto.
Tra i due, l’incontro è scolpito nella prevedibilità: scontrarsi, fraintendersi, annusarsi come due cani diffidenti, per poi addolcirsi mentre la sceneggiatura li guida verso il percorso obbligato della riconciliazione emotiva e professionale. Non c’è nulla di sbagliato in questo schema: è la struttura stessa del genere. Ma il problema è che Champagne Problems non tenta mai di piegarlo, infrangerlo o reinventarlo. Lo segue con docilità — troppo.
La Parigi digitale: un set che non respira
In una rom-com natalizia ambientata in Francia, la città stessa dovrebbe funzionare come un personaggio: luminosa, sensuale, imprevedibile. Invece qui Parigi è un ologramma: superfici lisce, luci digitali che non sanno di pioggia, un’aria che non porta odori né vita. È un souvenir animato, non una capitale.
La CGI — a tratti sorprendentemente invadente — leviga ogni angolo, fino a trasformare la Ville Lumière in un prototipo di simulatore turistico. E così ogni gesto dei protagonisti avviene in un luogo che non vive, non respira, non esiste davvero. Il risultato è un film che, paradossalmente, cerca disperatamente autenticità mentre la soffoca con pixel sintetici.
Minka Kelly e Tom Wozniczka: una chimica che rimane ipotetica
Kelly, nel ruolo di Sydney, offre un’interpretazione trattenuta, quasi timida: come se il personaggio le fosse stato cucito addosso ma la stoffa tirasse nei punti sbagliati. Non è mancanza di talento: è la mancanza di una sceneggiatura che le permetta di far emergere contraddizioni, ferite, desideri.
Wozniczka, dal canto suo, è un Henri estetico: bello da guardare, meno convincente da ascoltare. Nel loro primo confronto, si avverte chiaramente la volontà della regia di imporre romanticismo, invece di lasciarlo sorgere organicamente. E così la chimica non esplode mai: resta sospesa, latente, suggerita ma non vissuta.
Una regia che osserva ma non racconta
Il film alterna panoramiche patinate a interni che sembrano usciti da un catalogo IKEA dedicato al “Natale Chic Europeo”. Le inquadrature sono eleganti, sì, ma spesso talmente composte da risultare immobili. La fotografia calda, ambrata, vorrebbe evocare una sensazione di morbidezza emotiva; invece finisce per appiattire tutto in una tavolozza uniforme, senza guizzi né ombre.
Il vero nodo è che la regia non osa. Non osa sporcare, accelerare, rallentare, giocare. È un racconto che segue il copione come un manuale d’istruzioni — senza errori, ma senza estro.
Un amore che non brucia e uno champagne che non sale
Ciò che manca davvero a Champagne Problems è la scintilla: un gesto imprevedibile, una battuta memorabile, un conflitto che graffi, un bacio che infine esploda come fuochi d’artificio e non come una formalità di rito. È un film che accarezza l’idea di un trasporto emotivo profondo, ma non si abbandona mai a esso.
E così l’intera esperienza è simile a un bicchiere di champagne lasciato sul tavolo troppo a lungo: il perlage si spegne, l’aroma sfuma, resta solo un residuo zuccherino piacevole ma dimenticabile. Non disgusta, non annoia del tutto. Ma non lascia traccia.
Champagne Problems: valutazione e conclusione
Champagne Problems è un film che procede con grazia e correttezza, ma senza quella forza interiore che trasformerebbe una semplice rom-com natalizia in una storia capace di restare. È amabile, certo, ma mai irresistibile; elegante, ma senza anima.
Un’altra bollicina in una produzione che ne apre a dozzine — e che, come molte di queste, svanisce prima di spegnere l’ultima candela dell’Avvento.