Il rifugio atomico: recensione della serie TV distopica Netflix
Lotta di classe e pericoli dell'AI nella serie TV Netflix.
Con Il rifugio atomico, disponibile su Netflix dal 19 settembre 2025, Álex Pina ed Esther Martínez Lobato – già creatori del fenomeno globale La Casa di Carta – tornano con una nuova serie TV che intreccia distopia, critica sociale e melodramma familiare. Un progetto dal concept potente, con un impianto visivo imponente e un’ambientazione suggestiva, che tuttavia fatica a trovare una vera identità narrativa, oscillando tra intrattenimento mainstream e riflessioni più profonde.
Un bunker di lusso come ultima frontiera in Il rifugio atomico

La vicenda segue Max (Pau Simón), erede di una famiglia facoltosa segnato da un passato doloroso: un incidente stradale, costato la vita alla sua fidanzata, lo ha portato in carcere per tre anni. Una volta libero, il padre (Carlos Santos) e la madre (Natalia Verbeke) lo trascinano controvoglia in un rifugio sotterraneo di lusso, costruito per accogliere miliardari pronti a sopravvivere a un imminente conflitto nucleare.
All’interno di questa prigione dorata, Max deve fare i conti non solo con se stesso, ma anche con la famiglia della ragazza che ha ucciso: il padre (Joaquín Furriel), la nuova compagna (Agustina Bisio) e la sorella Asia (Alicia Falcó). Un incontro esplosivo che trasforma la convivenza in un costante campo di battaglia emotivo.
A sovrintendere agli ospiti del bunker c’è Minerva (Miren Ibarguren), figura enigmatica che lascia intuire un progetto ben più oscuro: dietro le porte blindate e le sale scintillanti del rifugio si nasconde un esperimento sociale, in cui i ricchi non sono più protetti, ma osservati, manipolati e forse sacrificati.
Influenze e punti deboli

Sin dal primo episodio emergono chiare le influenze: la rigidità gerarchica e le uniformi colorate richiamano Squid Game; l’ambientazione claustrofobica rimanda a Il buco; i dilemmi morali e tecnologici evocano Black Mirror; mentre l’intreccio corale e i colpi di scena ricordano La Casa di Carta. Se da un lato questa miscela garantisce ritmo e riconoscibilità, dall’altro impedisce alla serie di sviluppare un’identità autonoma, restituendo spesso l’impressione di un collage.
Il cuore tematico è quello della lotta di classe: il bunker diventa metafora di un’umanità divisa, in cui il privilegio è un bene da difendere con ogni mezzo. La narrazione tocca anche il tema della manipolazione dell’informazione e dell’intelligenza artificiale, ma lo fa solo in superficie, lasciando che i conflitti sentimentali e le dinamiche familiari prevalgano sulla forza della riflessione sociale.
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Un intrattenimento che funziona a metà
Sul piano estetico, la serie convince: le scenografie hi-tech restituiscono un rifugio che sembra a metà tra un hotel di lusso e un’astronave interrata, capace di evocare inquietudine e fascinazione. Il cast internazionale porta in scena personaggi tormentati e complessi: Pau Simón offre un protagonista fragile e rabbioso, mentre Joaquín Furriel e Alicia Falcó donano intensità e drammaticità alle dinamiche familiari.
Eppure, nonostante la cura visiva e le interpretazioni convincenti, la scrittura risulta altalenante: dialoghi ridondanti e svolte melodrammatiche finiscono per rallentare il ritmo e annacquare la tensione. Il risultato è una serie TV Netflix che cattura lo spettatore con la forza del suo concept, ma che fatica a mantenerne vivo l’interesse quando sceglie di insistere su cliché narrativi e sentimentalismi prevedibili.
Il rifugio atomico: valutazione e conclusione

Ambiziosa e visivamente potente, questa produzione Netflix nasce da un’idea forte e da un allestimento spettacolare, ma non riesce a distinguersi nel panorama distopico contemporaneo. Intrattiene, stimola qualche riflessione e colpisce per l’impatto visivo, ma manca dell’originalità necessaria a lasciare un segno duraturo.
Un racconto che affascina sul momento, ma che rischia di svanire presto nella memoria dello spettatore, sommerso da troppe suggestioni già viste.