Milarepa: recensione del film di Louis Nero
Milarepa, diretto da Louis Nero, con un cast stellare tra cui anche Harvey Keitel e F. Murray Abraham, arriva al cinema dal 19 giugno 2025.
Prodotto da L’Altrofilm, Louis Nero rivisita la storia del mistico, filosofico e poeta tibetano Milarepa, trasformando il personaggio in una giovane ragazza e prendendo spunto anche dalla vita della scrittrice francese Alexandra David-Néel. Con un cast impreziosito da nomi come Harvey Keitel, F. Murray Abraham, Isabelle Allen, Iazua Larios, insieme a Franco Nero, Hal Yamanouchi, Bruno Bilotta, Diana Dell’Erba e Ángela Molina. Tra dramma, avventura, racconto di formazione ed elementi propri del fantasy, Milarepa è in sala dal 19 giugno 2025.
Milarepa: il classicismo di un’eroina libera e imperfetta e la struttura anticonvenzionale di un film allegorico
Tra leggende, spiriti e frutti della natura in Milarepa si staglia la figura di una ragazza estremamente legata alla propria famiglia: a un padre che è rappresentazione della conoscenza e dell’amore per il sapere, a una madre modello di cura e calore umano, fino alla sorella, simbolo del dovere e del bisogno di prendersi cura gli uni degli altri. Una vita di agi stravolta dalla morte del padre. Una scomparsa che muta ogni ordine morale e personale. Mentre gli avidi e rapaci familiari dell’uomo portano via loro tutto, nella madre di Mila si accresce un sentimento di ostilità che diventa prima rabbia e poi odio. Nella contrapposizione tra vendetta e perdono, l’istinto materno è la richiesta stessa di vendetta che la madre affida a Mila. Attraverso la meditazione e la forza dirompente della sua psiche, Mila si riavvicina alla natura e alla capacità di controllarla. Tra fantasy e introspezione, Milarepa è la storia di un’eroina, immedesimazione astratta e metaforica con l’oggi. Le musiche, l’ambiente e il montaggio guidano e si trasformano insieme alla metamorfosi della protagonista.
La complessità di Milarepa è data dall’ampiezza dei messaggi, delle metafore e dei significati all’interno di un racconto che prende spunto da due figure, entrambe vissute più di un secolo fa. Conoscere i principi della scuola Kagyu del Buddismo tibetano darebbe modo di andare più in profondità e di captare in ciò che appare semplice strumento narrativo, la connessione con il percorso e le sensazioni che si susseguono nell’animo della giovane Mila e le tappe che la portarono poi all’incontro con il Marpa. Colui che solitamente trasmette gli insegnamenti a una ristretta cerchia di discepoli. La tradizione del Buddhismo tibetano si basa su componenti proprie della filosofia, delle spiritualità e della meditazione, insieme a delle forti regole morali; il Buddhismo tibetano vede la vita pervasa da una sofferenza che bisogna prima accettare per poi capire come affrontare, superare e per raggiungere infine l’illuminazione.
Le Quattro Nobili Verità del Buddhismo tibetano e le fasi di crescita dell’essere umano
La sofferenza in questione è tanto quella evidente ed esteriore, quanto quella più nascosta e interiore, che trova la sua origine proprio in quell’avidità legata ai beni materiali, al possesso e all’obiettivo di arrivare al più alto status sociale possibile. Desideri che vanno abbandonati per avvicinarsi alla libertà. La vera fine della sofferenza passa, per il Buddhismo tibetano, attraverso otto punti fondamentali: comprensione, intenzione, parola, azione, retta via, applicazione, concentrazione e meditazione. La sofferenza, la sua origine, come affrontarla e come superarla sono le Quattro Nobili Verità sulle quali si basa il Buddhismo tibetano, differente da tutte le altre forme di Buddhismo, e che nelle sue dottrine pone l’accento sull’importanza della figura di un maestro spirituale, sull’acquisizione di una maggiore consapevolezza, sul concetto di reincarnazione, e che come obiettivo primario e ultimo ha quello di liberare l’umanità dalla sofferenza per trovare e abbracciare la pace interiore.
In questo contesto il viaggio di Mila parte dal dolore a seguito della scomparsa del padre, un dolore che si trasforma in richiesta, in vendetta dei torti subiti da quei famelici e ingordi membri di un nucleo familiare pronto a imporsi autoritario sulle debolezze altrui. Ma la sofferenza propria di cui parla il Buddhismo tibetano è quella che Mila prova quando si trova di fronte alle calamità naturali alle quali lei ha dato vita, cosciente e atterrita di fronte a ciò che le ha donato il potere della meditazione. Quello è il primo step di un cammino di redenzione dove Mila crescerà e maturerà non solo verso quel simbolo fatidico e divinatorio che diverrà, ma anche verso un cambiamento che è proprio dell’essere umano. Se Milarepa è un film intellettuale, mistico e speculativo, accanto ricerca più visionaria alla base del personaggio sul quale si basa c’è il genere del racconto di formazione. Il coming of age cerca infatti di infiltrarsi nei passaggi cruciali della vita di Mila. E a volte ci riesce, perché Mila affronta ostacoli e complicazioni molto più simili all’attualità di quanto la cornice e lo scenario del film sembrino suggerire.
Una storia elementare dove ogni particolare ha un significato intrinseco nascosto
La natura desertica è solitaria, con alberi e rocce piegate e sfregate dal vento, dove dune di sabbia fina, quasi impalpabile, si estendono per chilometri, nascondendo l’orizzonte e la fine di questa distesa ininterrotta, sconfinata, perpetua e incessante. Accanto al riscatto di un’anima trafitta c’è la dedizione, la fatica e il sacrificio, l’esperienza continua che porta a una maggiore conoscenza: di sé, del mondo, degli altri. Riferimenti che possono alludere ed essere in relazione tanto con l’aspetto più evocativo del film che con quello più narrativo. La trama, estremamente semplice, beneficia di una regia contemplativa, che mostra quanto di straordinario e al tempo stesso vitale sia estremamente vicino, ma spesso invisibile. Affidandosi a una fotografia che predilige il minor numero di movimenti di macchina negli esterni, acquistando dinamismo negli interni. Con una costruzione della luce cha accompagna il percorso di scoperta e, appunto, illuminazione, di Mila. Concentrandosi su una narrazione che a volte racconta, Milarepa è maggiormente una rievocazione di simboli, immagini e concetti. Attraverso la Sardegna più selvatica, primordiale e autentica, dove ci si può sentire effettivamente fuori dal tempo e dallo spazio.
Milarepa: valutazione e conclusione
Milarepa è un film mistico e meditativo, una volontà di far riflettere, di porsi domande esistenziali che vanno dall’attaccamento a tutto ciò che è proprietà materiale fino alla continua devastazione della natura da parte dell’uomo, proponendo una riconciliazione e un ricongiungimento tra essi. Un messaggio ecologista che passa attraverso un mondo post-apocalittico dove la natura ha superato la tecnologia. Dove gli esseri umani, per vivere, dipendono dalla natura, mostrando come questo abbia un senso e un significato molto più profondo rispetto a quello che è dimostrativo di una certezza ingannevole attuale. Perché nel mondo del progresso e della modernità si vive nella fittizia sicurezza di dipendere ormai dalla tecnologia. Per quanto questa rilettura in chiave più contemporanea della figura di Milarepa, che passa attraverso interpretazioni e punti di vista femminili, il film di Louis Nero è liturgia, devozione e spiritualità. E la parte psicologica viene sempre più lasciata a margine, rendendo quella ricercato finalità e quel richiesto ruolo ascetico ed estatico, il vero messaggio, quello più intrigante e trascinante. Tutto in un’epoca senza tempo, tra passato e futuro, in un luogo di inestimabile fascino, che ben si adatta a terre che possono apparire indefinite, remote, antiche e primitive. Dove appunto è la natura a distruggere o accudire chi ha intenzione di abitarla.