5 registi che hanno raccontato al meglio il cinema LGBTQ+

Da Almodovar a Guadagnino, cinque registi che hanno raccontato l'identità queer con coraggio e autenticità

Il cinema LGBTQ+ è stato a lungo relegato ai margini della produzione culturale, nascosto tra sottotesti e metafore, temuto dai distributori e ignorato dalle grandi istituzioni. Ma col passare del tempo, grazie al coraggio di alcuni cineasti, queste storie sono emerse, prendendo spazio e voce. Raccontare l’identità queer sul grande schermo non è mai stato semplice: significa sfidare norme consolidate, mettere in discussione visioni eteronormative e dare forma a esperienze spesso invisibili. In questo articolo esploreremo cinque registi che hanno saputo raccontare l’universo LGBTQ+ con sensibilità, profondità e, soprattutto, verità. Le loro opere non sono solo film: sono dichiarazioni di identità, atti politici, abbracci poetici a ciò che spesso viene negato.

1. Pedro Almodovar tra i principali autori del cinema LGBTQ+

Se si pensa al cinema LGBTQ+ il primo nome di spicco che salta alla mente è certamente quello del regista spagnolo. Pedro Almodóvar è uno dei registi più iconici del panorama europeo, e probabilmente il più influente quando si parla di rappresentazione LGBTQ+ nel cinema mainstream. Nato nella Spagna franchista e cresciuto nella Madrid post-dittatoriale, Almodóvar ha trovato nel cinema il linguaggio ideale per esplorare le sfumature del desiderio, della sessualità e dell’identità di genere. I suoi film sono spesso dominati da figure femminili complesse, transessuali luminose e uomini che fuggono dalle gabbie della mascolinità tossica. In La legge del desiderio (1987), uno dei primi film europei a mostrare un bacio tra due uomini senza filtri, il regista affronta con audacia i temi del possesso, dell’amore ossessivo e della creazione artistica. Tutto su mia madre (1999), vincitore dell’Oscar, è un inno alla maternità queer e alla fluidità identitaria, mentre La mala educación (2004) fonde autobiografia, noir e critica alla repressione clericale. Almodóvar non cerca mai di “normalizzare” l’identità LGBTQ+: la esalta nella sua verità emotiva e nella sua potenza cinematografica, portandola al centro della scena con uno stile visivo barocco e inconfondibile. Questi sono solo alcuni dei titoli di una filmografia che più spesso si è occupata di parlare di identità e corpo, di sessualità e di sensibilità femminile.

2. John Waters

John Waters è noto per essere il sovrano incontrastato del cattivo gusto trasformato in arte. Il suo cinema è un’esplosione di oltraggio, trash e umorismo nero, ma sotto la superficie scandalosa si cela un approccio profondamente queer alla realtà. Fin dagli anni ’70, Waters ha utilizzato il mezzo cinematografico come una bomba contro l’ipocrisia borghese, creando universi grotteschi e ribelli dove le identità emarginate si prendono la scena con orgoglio e spregiudicatezza. Film come Pink Flamingos (1972), Female Trouble (1974) e Hairspray (1988) non sono solo dei veri e propri cult del cinema indipendente: sono atti di liberazione. Con Divine, sua musa e icona drag, Waters ha dato corpo a una rappresentazione dell’identità queer lontana dalla ricerca dell’accettazione. Il suo messaggio non è “siamo come voi”, ma “siamo diversi e ne andiamo fieri”. La sua estetica camp e l’uso dissacrante della sessualità, del corpo e della morale tradizionale fanno del suo cinema una dichiarazione radicale di libertà. Waters ha rivendicato il diritto all’eccesso, alla bruttezza, al non conformismo come forma politica. In un’epoca in cui l’industria cerca di rendere il queer “accettabile”, lui resta il promemoria necessario che il queer è, prima di tutto, resistenza creativa.

3. Gregg Araki

Gregg Araki è il portavoce più elettrico e viscerale del New Queer Cinema americano. I suoi film sono un mix allucinato di cultura pop, rabbia giovanile, confusione sessuale e pulsione di morte. Nessun altro regista ha saputo raccontare così bene l’adolescenza queer come esperienza di spaesamento totale, ma anche di resistenza e autoaffermazione. Le sue storie parlano di giovani disillusi, soli, abbandonati, ma anche ribelli e sessualmente liberi. Con Totally F**ed Up* (1993), The Doom Generation (1995) e soprattutto Mysterious Skin (2004), Araki ha dato forma a un’estetica queer post-punk, in cui il disagio si trasforma in arte. Mysterious Skin, in particolare, è uno dei ritratti più dolorosi e intensi mai realizzati sul trauma e sull’identità. La sua forza sta nella capacità di alternare lirismo e brutalità, ironia e tragedia, costruendo un cinema emotivamente devastante e stilisticamente visionario. Araki non cerca mai il consenso o l’inclusione rassicurante. Il suo cinema è una presa di posizione estetica e politica contro ogni forma di omologazione. È queer nella sostanza e nella forma, perché destruttura ogni narrativa dominante per restituire voce a chi non l’ha mai avuta.

4. Luca Guadagnino

Luca Guadagnino Sundance Festival- cinematographe.it

Luca Guadagnino ha portato una nuova sensibilità queer nel cinema italiano e internazionale, trasformando il desiderio in una forza visiva ipnotica. Con Chiamami col tuo nome (2017), ha raccontato l’amore tra due ragazzi con una delicatezza formale che ha fatto colpo su una larga fetta di critica, evitando il pietismo e l’eccessiva politicizzazione per concentrarsi sull’esperienza sensoriale dell’innamoramento tra un ragazzo ed un uomo adulto. Il film, ambientato in una languida estate italiana, è diventato un manifesto involontario dell’amore queer vissuto come esperienza universale e privata, senza didascalie ideologiche. Ma Guadagnino non si è fermato lì. Con il suo recentissimo Queer (2024), tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, il regista si spinge ancora più in profondità, esplorando il lato oscuro, malinconico e perturbante del desiderio omosessuale. Ambientato nel Messico degli anni Cinquanta, Queer racconta la storia di un uomo maturo ossessionato da un giovane americano, in un gioco di attrazione, alienazione e dipendenza emotiva. Guadagnino abbandona le atmosfere luminose di Chiamami col tuo nome per abbracciare una fotografia più sporca e notturna, restituendo un’idea del desiderio come forza disperata e instabile, quasi tossica. Tuttavia, già in film precedenti come Io sono l’amore (2009) o A Bigger Splash (2015), Guadagnino aveva mostrato un’attenzione profonda ai corpi, al silenzio, alla tensione erotica che si insinua nei gesti e negli sguardi. Ed in un certo senso ha esplorato la funzione del poliamore ed anche di una sottile bisessualità anche nella rom-comedy Challengers (2024).

5. Cèline Sciamma un’autrice al femminile nel cinema LGBTQ+

Céline Sciamma - cinematographe.it

Céline Sciamma è una delle registe che più profondamente hanno rinnovato il cinema queer e femminista degli ultimi anni. Con un linguaggio sobrio ma potentemente simbolico, le sue opere analizzano il rapporto tra corpo, identità e società, spesso partendo dall’infanzia e dall’adolescenza come momenti critici di trasformazione. In Tomboy (2011), racconta con straordinaria empatia la storia di una bambina di 10 anni che si identifica come un maschietto, offrendo uno sguardo lontano da ogni cliché, attento alla complessità della costruzione del sé. Con Ritratto della giovane in fiamme (2019), Sciamma costruisce un film rivoluzionario: un amore lesbico vissuto nel XVIII secolo, raccontato senza lo sguardo maschile, con una precisione formale e una forza emotiva che lo rendono unico. L’erotismo emerge dallo sguardo, dai gesti trattenuti, dalla pittura come forma di riconoscimento. Il tempo si dilata, le emozioni crescono come fiamme sotto la cenere. Il cinema di Sciamma è fatto di sottrazione, ma dietro l’apparente minimalismo si nasconde una carica politica dirompente. Le sue storie non vogliono educare o spiegare, ma offrire uno spazio di identificazione, una possibilità di visibilità per chi è stato a lungo escluso dal racconto cinematografico. È un cinema queer radicale nella sua dolcezza.

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