Come il movimento LGBTQ+ sta cambiando il mondo del cinema e delle serie TV

Una breve ricostruzione dei tratti salienti del mondo LGBTQ+ e della loro rappresentazione nei media.

Giugno è il mese in cui tutto nelle piazze di tutto il mondo migliaia di persone marciano per l’orgoglio e la difesa dei diritti queer. E quest’anno, dopo le recenti politiche anti-trans provenienti dal Regno Unito e i diversi attacchi da parte del governo Trump, è ancora più importante sostenere e festeggiare la comunità LGBTQ+. E se, ancora una volta, la serenità della comunità è minacciata, nei media si trova una verità molto diversa, una realtà fatta di inclusione e normalizzazione di tutte le sfaccettature della sessualità e dell’identità di genere.

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Il cinema e le serie tv hanno da sempre cavalcato l’onda dei diritti civili, e talvolta l’hanno anche anticipata. Negli anni, la presenza di personaggi gay nei media, e soprattutto nei prodotti delle piattaforme streaming più importanti, si è ampliata ed è diventata addirittura un marchio di fabbrica: in quasi tutti i prodotti Netflix c’è almeno un personaggio secondario gay o trans, in un’ottica di diversificazione e di rappresentazione che fino a pochissimo tempo fa mancava.

L’inizio del movimento LGBTQ+, dai moti di moti di Stonewall del 1969 in poi

Era il 1969 quando Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson, due attiviste transgender, lanciarono le prime bottiglie che diedero vita ai moti di Stonewall, che generarono quella che è diventata una marcia annuale di difesa dei diritti LGBTQ+, nota come Gay Pride. L’evento ebbe una forza propulsiva che dilagò in tutti gli aspetti della vita sociale, non da ultimo quello mediatico. Se già negli anni Sessanta, filmmaker sperimentali del calibro di Andy Warhol e Paul Morissey hanno abbattuto i tabù con rappresentazioni crude e senza filtri dell’esperienza omosessuale, negli anni Settanta la carica trasgressiva di queste tematiche comincia a uscire dai cosiddetti Midnight Movies (film indipendenti che venivano proiettati a mezzanotte nelle sale) e sbarcano in produzione più mainstream. Con Quel pomeriggio di un giorno da cani, Un uomo da marciapiede e Domenica maledetta domenica si possono finalmente vedere dinamiche e personaggi omosessuali sul grande schermo e senza sottigliezze dovute al codice Hays, che vietava la presenza esplicita di qualsiasi cosa andasse contro la pubblica moralità (nudo, perversioni sessuali, droghe e alcolici). Fu proprio un midnight movie a sdoganare definitivamente un approccio più libero e anarchico, della sessualità e del cinema: The Rocky Horror Picture Show, diventato un classico cult ancora riprodotto in tutto il mondo.

Il New Queer Cinema

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Dopo la crisi dell’epidemia di AIDS degli anni Ottanta, che ha silenziato nel modo più tragico un’intera generazione di uomini omosessuali, negli anni Novanta le persone LGBTQ+ sentono più che mai il bisogno di esprimersi e di raccontare le loro storie. Si forma così il New Queer Cinema, un movimento di film indipendenti in cui non solo le storie sono incentrate su personaggi omosessuali, ma gli stessi registi lo sono e danno un taglio unico alle proprie opere. Il termine, coniato nel 1992, inquadra un certo tipo di cinema non più fosco e sperimentale come in passato, ma neanche edulcorato e mainstream: una nuova e necessaria linfa vitale libera e unica, fatta da e per persone LGBTQ+. Emergono quindi registi come Gregg Araki, con il suo esordio alla regia The Living End, la documentarista Jennie Livingston, il cui Paris Is Burning portò al grande pubblico il mondo underground delle ballroom (sfide di ballo tra “famiglie” formate da persone gay e transgender, spesso di colore), e Silas Howard, che con la buddy comedy By Hook or By Crook fu uno dei primi registi e attori FTM (female to male) a sbarcare sul grande schermo.

Anche in televisione cominciamo a vedere i primi passi importanti, come il coming out di Ellen DeGeneres nella sua omonima sitcom Ellen: un momento di vera e propria rottura, che prese di sorpresa milioni di spettatori e che portò la comica americana e l’attrice Laura Dern (che interpretava l’interesse amoroso della protagonista nella serie) a non riuscire a trovare lavoro per anni. Nel ’99 inoltre, in Inghilterra esce la breve miniserie Queer as Folk, creata da Russell T. Davies, che per la prima volta mostra senza filtri una rappresentazione realistica del mondo omosessuale, senza tralasciare nessun aspetto, dal sesso alle discoteche alle droghe. Tuttavia è il suo remake canado-statunitense del 2000 che diventa immediatamente un cult: con una durata più lunga e approfondita (solo la prima stagione conta 24 episodi da 50 minuti l’uno), la serie riesce a trattare tutte le tematiche bollenti di quegli anni, come il coming out, gli effetti dell’epidemia di AIDS, i gay bashing, l’omogenitorialità e tanti altri. Rifatto anche nel 2024, aggiornato ai tempi, non ha avuto lo stesso successo.

Gli anni 2000 e la stagione delle Romance

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Nei primi anni 2000 l’approccio cambia: gli autori gay cominciano a fare film non più solo per sé stessi, ma anche per il pubblico etero, specialmente femminile. Iniziano a uscire dei primi sprazzi di film romantici, specialmente commedie, con protagonisti gay e lesbiche, andando a riempire i buchi di quella vera e propria ondata di RomCom etero che ha dominato il decennio. E così abbiamo titoli come The Big Eden, Imagine Me & You e Shelter, piccoli gioiellini indie che hanno lasciato il segno all’interno del genere. Ma la svolta ci fu nel 2005, quando Brokeback Mountain vinse il Leone d’Oro a Venezia per il miglior film e vinse gli Oscar per miglior regia, miglior sceneggiatura e migliore colonna sonora. Finalmente, anche al pubblico più mainstream potè arrivare una storia d’amore piena, seppur tragica, di due persone queer. Il film è ancora oggi considerato uno dei più belli e importanti per la storia del cinema gay, anche se il suo regista, Ang Lee, non lo è. Significativo inoltre, che in mezzo a mille storie spensierate, a colpire il pubblico sia ancora una volta un film in cui è presente quella pratica narrativa che è stata definita bury your gays, una convenzione per cui in tutte le storie in cui sono presenti uno o più personaggi LGBTQ+, siano questi, o uno di questi, a dover essere sempre gli agnelli sacrificali. Una convenzione che ha radice probabilmente in una omofobia interiorizzata dell’industry e che si porta dietro quel bagaglio culturale che deriva dal codice Hays, in cui i personaggi queer (o queer coded, come in molti film Disney) sono i villain o comunque hanno destini tragici e intrinsecamente punitivi.

Movimento LGBTQ+, la rivoluzione della serialità e l’arrivo delle piattaforme streaming

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Dopo una breve stagione di film fortemente popolari che arrivarono agli Oscar (il già citato Brokeback Mountain e poi, nel 2008, Milk, biopic drammatico sull’attivista e politico Harvey Milk, diretto da Gus Van Sant), a livello cinematografico si andò velocemente a sgonfiare tutto l’interesse per le tematiche queer. Allo stesso tempo però fu la televisione a emergere come strumento più adatto e libero per raccontare questo tipo di storie, specialmente con un target adolescenziale. Glee, creato da Ryan Murphy, ha dominato la televisione dal 2009 al 2015: il fulcro della serie era proprio dare uno spazio a tutte quelle che erano delle persone marginalizzate, operazione che certo aveva dei difetti ma all’epoca scommesse su questo concept ed ebbe successo. La serie infatti parla di un gruppo estremamente eterogeneo di personaggi (una ragazza nera, un disabile, un ragazzo gay, una WASP, le classiche mean girls, un quarterback) che trovano un interesse comune nel glee club, ovvero una sorta di coro scolastico. Mano a mano, Glee è diventato sempre più amato dalla comunità LGBTQ+ e ha grandemente ampliato il suo stuolo di personaggi queer, diventando una delle serie più diversificate del palinsesto televisivo tradizionale.

Sono questi gli anni in cui infatti la serialità comincia a spiccare veramente il volo: sempre più persone sono incollate ogni settimana ad aspettare il nuovo episodio di una serie del cuore. La serialità diventa così popolare che nuovi registi cominciano a cimentarsi con le prime web-series, e nel 2013 Netflix fa uscire sulla sua piattaforma Orange is the New Black, adattamento omonimo del libro di memorie dal carcere di Piper Kerman. Orange is the New Black diventa rapidamente un fenomeno mondiale, e solo la sua prima stagione ottenne ben 12 candidature agli Emmy. La serialità cambia così ufficialmente forma: le web series sono un mezzo nuovo e innovativo di fare televisione, e consacra Netflix a nuovo colosso sul mercato. Tutto ciò, anche grazie a una serie a carattere fortemente saffico: ambientata in un carcere femminile, Orange is the New Black mostra una varietà di personaggi LGBTQ+.

I personaggi omosessuali non ci bastano più

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Da allora, la diversità è diventata sinonimo di Netflix: ogni serie (e film) di produzione del grande marchio di streaming contiene personaggi appartenenti a sessualità, generi ed etnie diverse. La convenzione si è talmente normalizzata e allargata che ora è molto raro trovare una serie, prodotta da qualsiasi piattaforma ma anche dai canali televisivi tradizionali, senza almeno un personaggio LGBTQ+. E quella stessa spinta propulsiva di autori queer che abbiamo visto nel cinema a cavallo tra gli anni ’90 e duemila, ora la si vede molto chiaramente tra i creatori e show runner: serie come Special, creata e interpretata da Ryan O’Connel, e Feel Good, creata e interpretata da Mae Martin, sono esempi di piccoli prodotti da e per persone queer, senonché in un contesto che sta diventando sempre più mainstream.

Si può dire infatti che ora si sia raggiunta una sorta di normalizzazione della presenza di almeno qualche categoria della comunità LGBTQ+ nei media: se la presenza di personaggi omosessuali (specialmente maschili) ormai è quasi d’obbligo, non ancora la stessa cosa si può dire per tutte le identità trans/intersex/non-binary e lo spettro della bi-pansessualità e asessualità. Ma, specialmente i prodotti seriali, sono sempre più aperti all’inclusione di nuove storie da raccontare e nuove identità da approfondire: Heartstopper e Sex Education sono entrambi dei prodotti che cercano, soprattutto con leggerezza e romanticismo, di dare visibilità a quante più persone possibili, non solo in termini di sessualità ma anche di disabilità e origine. E il loro carattere drammatico ma non cupo è uno dei motivi che le ha rese così popolari. Le persone queer vogliono vedersi rappresentate senza stereotipi tragici, che narrativamente hanno spesso avuto quasi come delle tappe obbligate: la difficoltà del coming out, il bullismo, le aggressioni (anche fatali), talvolta il suicidio o la malattia mortale.

Questa legittima voglia di spensieratezza cela però il rischio di arrivare a un plateaux narrativo: senza conflitto, è molto difficile fare una storia. Ma la soluzione non è quella di ricorrere a quelli ritriti e anacronistici che abbiamo citato; ma di crearne altri, più profondi e concreti, che si rifacciano meno a questo stampino unificatore della esperienza omosessuale e che invece siano unici e personali per il personaggio.