Mauro Russo Rouge si racconta, dall’erotismo al Bostik, tra Maradona e Napoli
Un'opera che attraversa le strade di Napoli, tra devozione laica e identità popolare, seguendo chi ha contribuito a rendere immortale un'icona: il regista del docufilm racconta il suo rapporto con Maradona.
Dopo una trilogia di documentari dedicati all’erotismo, Mauro Russo Rouge torna dietro la macchina da presa con un progetto molto diverso, ma altrettanto viscerale: Bostik, La Bodega de D10S. Prodotto da AC SystemOut e distribuito da Piano B, il documentario è in sala dal 26 al 28 maggio 2025. Il regista, nonché direttore generale del Torino Underground Cinefest, segue la storia di Antonio Esposito, detto Bostik, figura leggendaria dei Quartieri Spagnoli e custode del “santuario laico” dedicato al Pibe de Oro. In quel Largo Maradona, diventato meta di pellegrinaggio per tifosi da tutto il mondo, si intrecciano memoria, fede calcistica e identità popolare. L’incontro tra il regista e Bostik è avvenuto quasi per caso, spinto dall’insistenza della figlia di Antonio, ed ha generato un documentario che cattura non solo il mito di Diego, ma soprattutto l’umanità e la devozione che ne perpetuano il culto. Tra i vicoli stretti e colorati dei Quartieri, Mauro Russo Rouge si muove con uno sguardo a metà tra reportage e cinema di finzione, costruendo un racconto visivo che ha la forza di un’icona religiosa e il calore di una narrazione popolare. Lo abbiamo intervistato per scoprire com’è nato questo progetto e cosa lo ha spinto a raccontare la storia di Bostik.
Mauro Russo Rouge: dalla trilogia erotica al docufilm su Bostik e il murale di Maradona

Quando e come hai conosciuto Bostik?
“Bostik l’ho conosciuto circa due anni fa, tramite una delle figlie che è di Torino e che continuava a ripetermi: ‘Tu devi fare un docufilm su mio padre’, e io continuavo a ripetere ‘Ma chi è tuo padre?’. Lei puntualmente mi rispondeva: ‘Quello del murale’. Io è come se non sentissi, perché ero alle prese con un altro contesto, una trilogia erotica per Sky, altri progetti, quindi… Sai quando fai la domanda e non ascolti la risposta? Praticamente si è verificato questo con Bostik. Quindi i primi mesi non gli davo proprio credito, però lei è stata audace perché ha continuato a ripetermi ‘Tu devi fare un film su mio padre’ e a furia di ripetermelo questa roba è diventata ‘Ok, arrivo a casa, devo andare a documentarmi: chi è Bostik? Cos’è il murale di Maradona?’ perché non avevo la minima idea, e quindi a un certo punto ho cominciato a documentarmi su internet. C’erano video, c’erano immagini, c’erano articoli, e lì diciamo che mi sono, più che appassionato, incuriosito alla vicenda.“
Che cosa che ti ha rapito esattamente di questo personaggio?
“Di Bostik mi ha rapito il suo legame con la città, il suo legame viscerale con Maradona. È vero che non sono stato un grande appassionato di calcio negli ultimi anni, però Maradona è un po’ la passione di chiunque. Io lo vedo anche con mio figlio di cinque anni e mezzo, parla di Maradona pur non conoscendolo, perché ci ha lasciato questa eredità che è una magia dal mio punto di vista: la possibilità di essere ricordato di generazione in generazione, anche solo parlando e mostrando dei video. Quindi questa cosa mi ha affascinato perché sono tornato un po’ alle mie origini, ai miei vent’anni, alle poche occasioni in cui ho avuto la fortuna di vederlo giocare dal vivo, o di vederlo in televisione, di apprezzare le sue gesta. Poi c’è questo video che io rivedo almeno dieci volte all’anno, il riscaldamento pre-partita con il Bayern, con ‘Live is life’. Poi ho visto il docufilm di Kusturica… È un legame indissolubile anche per un non tifoso. Con Maradona lo si ama, lo si odia, è un rapporto controverso, però dal punto di vista calcistico non puoi non idolatrarlo.”
“Se Maradona è il santo, Bostik è il papa”

Dopo la sua morte lo stesso Largo Maradona è diventato un santuario, come viene detto e dimostrato anche nel film. Si può dire che se Maradona è il santo, Bostik è il sacerdote o addirittura il papa?
“Non so se definire Bostik il protettore di Maradona o Maradona il protettore di Bostik, e di conseguenza dei quartieri della città di Napoli. Certo è che Maradona continuerebbe a vivere anche senza Bostik, ma non in queste dimensioni, dal mio punto di vista. La cura e la dedizione che ha Bostik nei confronti di questo luogo di culto è qualcosa di veramente maniacale a volte. È pieno di murales in giro per la città di Napoli, ma non c’è questa atmosfera quasi mistica. Tra l’altro, come mi diceva anche Bostik quando mi veniva a trovare e poi quando abbiamo deciso di fare questo film, la magia di questo posto è legata al fatto che sì, Maradona è morto, quindi poteva diventare un posto sacro solo dopo la sua morte, ma la gente ha cominciato a riunirsi spontaneamente, senza un perché. È una tomba simbolica che segna un legame, io credo, indissolubile con la vera tomba di Maradona di Villa Fiorito. Ma è forse il posto che soprattutto i napoletani hanno per sentirsi più vicini a questa figura. Non solo i napoletani, la cosa che mi sorprende è che anche gli argentini vengano qui per sentirsi vicino a Maradona, quando poi ce l’hanno lì in casa, è paradossale ma forse proprio perché gli argentini hanno compreso nel tempo che, come è stato amato qui Maradona, non lo è stato neanche lì da loro.“
Si vede anche nel film dalle varie testimonianze che hai raccolto dei tifosi argentini.
“Sì, piangevano, un legame veramente unico. C’è questo fil rouge con l’Argentina che io credo durerà nel tempo. Secondo me tra cent’anni il murale sarà ancora qua.“
Hai girato il film nei Quartieri Spagnoli, cosa ti porterai dentro sia a livello artistico-estetico che personale?
“La curiosità delle persone, questa voglia di esibirsi in continuazione. L’esibizionismo che c’è un po’ in tutti i napoletani, che però non è un esibizionismo negativo. Lo fanno con un certo appeal, lo sanno fare. Solo perché vedono due telecamere, un boom, sentono la necessità di mostrarsi. Questa roba qui a Torino non esiste, neanche a Milano. C’è più distacco, quasi paura, invece qua vedo proprio la volontà di esibirsi, di mostrarsi. ‘Ok, ci sono anch’io, sono qui, guardatemi’. Dal punto di vista estetico, non c’è dubbio che ci sia una bellezza di questi vicoli. A me piace dal punto di vista tecnico lavorare molto con i teleobiettivi, annullare la profondità di campo, però quando hai a che fare con uno scenario del genere… Ho usato anche tantissimi grandangoli, inquadrature dal basso verso l’alto, che ti danno un’idea di schiacciare al contrario lo scenario a testa in giù. Anziché fare queste inquadrature a piombo con un drone, fare proprio dal basso verso l’alto per dare risalto a questi lunghi corridoi, che in Liguria chiamerebbero ‘budelli’.“

Questo è il tuo quarto documentario dopo una trilogia che trattava tutt’altre tematiche e andava a scavare nell’interiorità dei personaggi. Qui invece hai avuto a che fare più con una dimensione popolare. Come hai vissuto questo passaggio da storie più intime, in un certo senso chiuse, ad una storia che tratta del rapporto tra una comunità e un santo?
“Mi sono divertito un sacco, sentivo l’esigenza di staccare dal discorso erotico, anche un po’ per uscire dal mood. Poi non sembra, ma si rischia di sprofondare nell’etichetta. Tra l’altro era una trilogia che avevo venduto a Sky, comunque ho avuto visibilità. Fosse stata una roba molto più indipendente, legata a me stesso e alla mia crescita, potevo non pensarci. Ma in questo caso, che ha avuto un riscontro abbastanza positivo sul mercato, sentivo proprio l’esigenza di passare a qualcosa che andasse fuori da quello che per me stava diventando quasi un cliché. Quindi qualsiasi cosa fosse stata forse l’avrei accettato. Però mi sono proprio legato al personaggio, mi ha incuriosito più che altro. All’inizio Bostik era molto taciturno, quasi misterioso. Diceva e non diceva, come se volesse dirmi un sacco di cose ma poi subito dopo mi diceva ‘No, però questo non metterlo’. Questo mi ha incuriosito, perché ad un certo punto pensavo di poter arrivare a fargli raccontare anche determinate cose legate alla sua vita, al suo background. Non l’abbiamo fatto, però mi ha dato la possibilità di riavvicinarmi al calcio, allo sport, roba che non pensavo neanche più di vedere e di cui godere. Invece in realtà adesso sono contento perché mi ha un po’ riaperto la mente.“
Che progetti hai per il futuro? Si parlava di un ritorno al cinema di finzione.
“Sono sempre aperto a tutto, dico la verità. Non ho timore di niente, che sia esplorare l’erotismo o esplorare situazioni come queste, le situazioni più popolari o legate allo sport. Mi piacerebbe tornare alla finzione il prima possibile, però bisogna capire che se lo vuoi fare come lavoro devi unire utile e dilettevole. Non puoi pensare di fare solo quello che ti piace fare, quindi cerco di prendere sempre in considerazione qualsiasi ipotesi. Non ero entusiasta all’inizio di fare un film sul murale di Maradona, però mi son detto ‘Vediamo dove mi porta’. È vero che sto facendo una cosa che non mi entusiasma sin da subito, ma aggiungendoci il mio linguaggio, la mia estetica, la mia ricerca, posso comunque appassionarmene, e così è stato. Quindi io dico sempre di cercare di lavorare su tutto quello che ti arriva e metterci il tuo punto di vista. Il mio è sempre molto estetico e tecnico, però mi rendo conto che si può lavorare anche sotto il profilo della tematica: rivoluzionarla, plasmarla… E a me, anche quando lavoro sul docufilm, piace proprio l’idea di lavorare su un’estetica che si avvicini il più possibile al film di finzione, sia nel look che proprio nella scelta delle ottiche. Questo non dico che mi faccia stare bene, ma mi rasserena un po’. Perché poi per stare bene devo tornare al film di finzione, lo dico espressamente. Però tornare al film di finzione vuol dire lavorare con altri budget e avere anche meno opportunità di distribuzione.“
C’è anche un discorso produttivo comunque da non sottovalutare.
“Ormai se vuoi girare un film di finzione non puoi pensare di realizzarlo con meno di 200-300 mila euro. Parlavo stasera con Gianni [Russo, ndr.], il produttore, senza avere la possibilità di lavorare con grandi nomi devi avere almeno quei 200-300 mila euro che ti permettano di lavorare tre o quattro settimane, avere un processo realizzativo che ti permetta di utilizzare delle attrezzature costose. Lavorare con un certo tipo di ottiche, con un direttore della fotografia, sono dei costi vivi che non puoi escludere. Io ho fatto un film con meno di 70 mila euro, super indie, “Ira” del 2019. È uscito anche in un po’ di sale, però è film che non dico che vada a finire nel dimenticatoio, ma fa quel percorso sala e poi muore. Però il mio obiettivo è tornare alla finizione. E poi, ripeto, cerco sempre di prendere in considerazione tutto, aggiungendo la mia cifra estetica.“

C’è qualche episodio di quello che è girato insieme a Bostik che non hai inserito nel film ma che avresti voluto inserire e che ci puoi raccontare?
“All’epoca è stata dura perché noi siamo stati qua 15-16 giorni e dopo 2-3 giorni sentivi già che il sottotesto era ‘Ma quando c… ve ne andate?’, perché gli stavamo proprio addosso. Due camere, il caldo, la gente che comunque si mette in mezzo e chiede ‘Cosa state facendo?’, che gli entra in casa. Poi anche tu gli piombi in casa, gli dici ‘Guarda che domani mattina dobbiamo andare lì, alla mostra di Maradona, poi dopo domani dobbiamo andare allo stadio’. È una persona che non è abituata a ricevere delle regole, delle circostanze su cui lavorare o degli orari. Lui è una persona che ama stare proprio lontano dai riflettori, al contrario di quello che si possa pensare. È uno che scende il mattino alle 6, si fa la sua passeggiata al lungomare quando non c’è nessuno. Alle 10 torna su, posa la macchina, quando c’è casino se ne va a casa. Ritorna al pomeriggio alle 6, ma sta un paio d’ore, poi se ne va di nuovo a casa. È una persona comunque difficile, non è uno che ama stare in mezzo alla confusione. Quindi abbiamo capito sin da subito che sarebbe stato pesante, come in realtà è stato. Devi cercare di assecondare lui da una parte, ma portare a termine il lavoro.“