Sirens: recensione della serie TV con Julianne Moore e Milly Alcock
Sirens è una serie per certi versi anomala. Ed è per questo che è imperdibile.
Dalla creatrice di Maid, Molly Smith Metzler, arriva su Netflix Sirens, disponibile dal 22 maggio 2025. Una miniserie in cinque puntate che tra dinamiche familiari, tinte mistery e location lussuose, si può definire “qualcosa di nuovo”. I generi che si intersecano in Sirens sono molteplici e si susseguono nel corso degli episodi, creando un mix che mai si discosta dallo stile fine e dall’atmosfera raffinata di una serie tv attenta ad ogni dettaglio, che nella tecnica non manca di nulla. Con un cast stellare tra cui anche Kevin Bacon, le protagoniste sono tre donne: Julianne Moore che interpreta Michaela, Kiki per gli amici, Milly Alcock nei panni di Simone e Meghann Fahy che interpreta Devon. La storia inizia quando Devon, sorella maggiore di Simone, arriva nell’isola dei Kell, l’isola di Michaela, ammaliante filantropa che ha come assistente Simone, ragazza giovanissima che ha trovato il suo posto nel mondo: quello ricco e colorato del quale Michaela è assoluta padrona. Un ambiente ristretto dove Devon non può stare, dove è indubbiamente fuori luogo. Oltre a questo Devo è però anche l’unica a conoscenza di un passato che Simone ha fatto di tutto per tenere nascosto. Ma qualcosa che è taciuto e da continuare a mantenere celato, lo hanno anche Michaela e Devon. È così che i segreti di nessuno sono al sicuro.
Sirens è il canto delle sirene al quale non si può sfuggire: si leva dall’oceano e insieme al rumore delle onde incanta chiunque lo ascolti

Sirens, nonostante sia scritto alla creatrice di Maid, è ciò che di più lontano potrebbe esistere da quel piccolo lavoro che è stata la serie con Margaret Qualley. Sirens non cerca la grande verosimiglianza nelle sue protagoniste, non cerca rapporti fatti di tenerezza, affetto, attaccamento o amore sincero. Non cerca forse neanche l’immedesimazione, ed è per questo che la si segue sospendendo l’incredulità. O meglio portando i suoi spettatori a credere, senza che appaia poi così tanto improbabile o assurdo, tutto ciò che accade. La cattiveria che è sedimentata in Sirens non è così lontana dalla logica del potere che è opportunista, ambiziosa, appassionata e ingorda. Ma tutto questo avviene dopo, quando Sirens dà ancora l’idea di essere un prodotto che non sa dove vuole arrivare. E invece è uno show dagli intenti chiarissimi. Con una fantasiosa, e per questo originale, struttura narrativa.
In mezzo a una storia dove di racconto c’è tanto, Sirens è anche un’esplorazione delle figura femminile in tutte le sue sfaccettature, anche le più crudeli, arriviste e spietate. Tutte raggiunte con una classe, una signorilità e uno stile ricercato che è proprio dell’animo femminile. Tre generazioni diverse di tre donne diverse che hanno tre obiettivi diversi. Scopi che hanno forse qualcosa in comune, ma che non possono realmente coesistere. Nessuna di loro è involucro di una verità o di una generosità che supera le altre, perché ognuna ha i propri scheletri nell’armadio. Scheletri che sono nei rapporti interpersonali che le legano, nei ricordi di un’infanzia e un’adolescenza rubata o mai avuta, nella volontà di sentirsi essenziali. Per poter vivere nella convinzione di aver aiutato chi ne aveva bisogno, di aver fatto del bene, di aver sacrificato se stessi per gli altri.
Una dipendenza che è emotiva, affettiva, economica e biologica

Kiki e Simone vivono una simbiosi tanto meravigliosa e rara, quando angosciante e minacciosa, che proprio nella sua unicità, e nell’essere inavvicinabile da chiunque altro, ha qualcosa di nascosto, ermetico e “strano”. I personaggi di Julianne Moore e Milly Alcock sono due facce della stessa medaglia che vuole però mostrarne solo una parte, due piatti di una bilancia che pende sempre e solo da un lato. Ed è Devon, volto di Meghann Fahy, l’ago della bilancia. Si rompe così la stabilità data da una fusione vincolante e interdipendente di due anime che sono diventate l’uno corpo esterno e contenitore dell’altra. Ma il potere detenuto da Kiki, fautrice e promotrice di un universo che rigoroso, perfetto e a regola d’arte, è inviolabile per molti, ma non per tutti. La venerazione e il culto per Kiki serbamo un profondo desiderio di distruzione, per sconfiggere, bandire ed esiliare chi è regina e dittatrice.
Manipolare ed essere il vertice inarrivabile, supremo, altissimo di una scala gerarchica non è una casualità, una scelta o una volontà. In Sirens è sintattica proprietà della corretta morfologia della Terra. Non c’è alternativa, non in quel piccolo mondo dove tutti appaiono disumanizzati. Sirens è elegante, sensuale, accurato. Ma è anche tossico, nocivo, astioso e pungente. Tra le sorelle volano parole cariche di rabbia e risentimento, minate e scalfite da invidie, gelosie, ingiustizie e differenze. Devon viene dal mondo che Simone vuole dimenticare, quello che è nato dall’incontro con Michaela. Le tre donne sono tre persone che non possono convivere, e che alla forza dell’amore possono sostituire la stessa forza dell’odio e del disprezzo. Con una regia precisa, proporzionata e regolare, dove tutto è centrato, quasi geometrico, i colori tenui e luminosi dipingono un mondo che sembra delle favole, ma che si rivela più stregato che fatato, magico nella sua accezione più diabolica e occulta.
In Sirens non esiste un elemento che non sia connesso e connaturato con il senso e il messaggio della serie

Prevalgono il giallo, il verde e il bianco, e Sirens li erige a un vero e proprio simbolismo che non è solo nelle luci, ma negli abiti e negli arredi. Spesso questi tre colori vengono messi insieme negli stessi splendidi costumi che le donne di Sirens sfoggiano con noncuranza e inconcepibile abitudine. Il giallo è la luce, l’estate, il sole dell’ambiente scintillante della residenza dei Kell, dove l’orizzonte che è fulgido, radioso e splendete, si tinge di un’eccentrica e bruciata opacità. Anche questa a stigmatizzazione di quel qualcosa da nascondere che in Sirens coinvolge tutti. Il verde è la natura, le foglie che brillanto smaglianti durante la fioritura primaverile, è la calma rilassante dell’equilibrio, la fierezza che induce chi ha certezza del proprio prestigio, della propria autorità e del proprio essere in cima a una piramide infinita. Un sicurezza che spesso può oltrepassare la propria concezione di sé.
Il bianco, che spesso è associato all’innocenza e alla purezza, in Sirens è un’ipnotica e ceca serenità, quella che si è fatta propria, che si crede di possedere per ordine divino. Dove la divinità in questione è la donna che ha dato vita a quel fiume in piena che con la propria corrente continua a trasportare privilegi, benefici, vantaggi, diritti e prerogative. C’è scrupolosità e premura in Sirens: tutto ciò che si vede è formula esemplare, capacità espressiva e rilievo sentimentale di ciò che Sirens racconta. E di ciò che Sirens è. Manovrare, controllare, condizionare è l’unica vera procedura per ottenere qualcosa, qualsiasi essa sia. Ad aumentare ed espandersi è solo il limite fine al quale ci si può spingere. Quanto manomettere, corrompere e direzionare i circuiti nervosi che, nell’anima e nella coscienza, risvegliano stimoli e percezioni emotive. Lusingando, illudendo o assicurando che quei sentimenti come amore, amicizia, stima, affetto e rispetto siano puri, autentici e sinceri.
Sirens: valutazione e conclusione

Sirens è una serie imperfetta, una serie che parte come mistery, trasformandosi o fingendosi un thriller, dove poi divampa imprevista una comicità intelligente. Prima di chiarire che Sirens va considerata anche una serie, per certi versi, anomala. Ed è per questo che è imperdibile. Donne manipolatrici, uomini pedine di un gioco di potere dove possono al massimo aspirare ad essere raggirati da chi può dar loro anche qualcosa di guadagnato. Una fame insaziabile di supremazia, comando e predominio. Sirens è un rubarsi la scena a vicenda tra Meghann Fahy, Milly Alcock e Julianne Moore.
Ognuna con un proprio fascino capace di esercitare il proprio controllo sugli altri. Di ingannare, ignare o con coscienza, chiunque sia il proprio interlocutore, a volte sbagliando, a volte smascherando ingombranti verità. Ecco che quando lo scambio di battute coinvolge le tre protagoniste la sceneggiatura diventa velenosa, perfida, iraconda e turbolenta; lasciando intravedere tutto il non detto, tutto quel passato condiviso dimenticato e quel rancore mai affrontato. Dove essere una personalità risolta con se stessa è solo esteriore, e ci si innamora dell’immagine che gli altri hanno di sé. Perché ciò che vive e si contorce all’interno dell’animo può rimanere nascosto; alla fine lo è sempre stato.
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