Paternal leave: recensione del film con Luca Marinelli
Paternal leave è un film fatto di silenzi, di sguardi, di piccoli gesti.
Paternal leave è l’ottimo debutto di Alissa Jung dietro la macchina da presa. Un film che racconta una storia che può apparire dapprima già vista, ma che nella messa in scena, nella recitazione e negli elementi marginali che ne compongono struttura e cornice, trova la sua autenticità. Costituita sicuramente da una semplicità che viene apprezzata e uno scorrere filmico che è pacato, misurato, lento quanto basta per raccontare ciò che, senza mezzi termini, è il cuore della storia. Alissa Jung si dimostra così un’esordiente regista dalle idee chiare, che sa come arrivare allo spettatore, purché questo non significhi rompere ogni schema e creare già da subito un proprio modo di concepire inquadrature e luci di scena. Con protagonisti Luca Marinelli, marito della regista e l’astro nascente del cinema Juli Grabenhenrich, nel cast sono presenti anche Arturo Gabbriellini, Joy Falletti Cardillo e Gaia Rinaldi. Distribuito da Vision Distribution, il film arriva in sala il 15 maggio 2025.
In Paternal leave servono pochi dialoghi e poche parole, e si comunica con gli occhi

Paternal leave è un film fatto di silenzi, di sguardi, di piccoli gesti. Espressioni che si dipingono sui volti a malincuore, occhi che sbirciano cercando di intercettare i pensieri dell’altro e occhi che rimangono inebriati da un paesaggio che, suggestivo e imperscrutabile, incute fascino e mistero. Paternal leave è sospeso, come lo è il rapporto tra un padre che incontra per la prima volta la figlia adolescente che si reca dalla Germania all’Italia solo per conoscerlo, o forse per urlargli finalmente il suo risentimento. Tutto oscilla in bilico, a mezz’aria, tra rabbia e affetto, una rabbia motivata e un affetto dato da un legame mai instaurato. Il Paolo di Luca Marinelli non si sente all’altezza di forse nessuna delle situazioni che gli si presentano all’improvviso; fragile e indifeso nei confronti di un vortice emotivo che non è pronto a sostenere. La Leo di Juli Grabenhenrich per certi versi è un’appena adolescente che crede di essere incompresa e inadeguata.
Per altri è una giovane donna a confronto con un uomo adulta che continua a reiterare nell’errore di dover nascondere questa figlia a tutti, senza domandarsi gli effetti che questo possa avere su di lei. Esattamente come quindici anni prima, quando era sparito senza tornare più. Ambientato all’interno di un bar che ha anche le sembianze di una casa, sulla spiaggia di un mare d’inverno, in una cittadina turistica che muore desolata durante i mesi più freddi, in boschi intricati che si inerpicano a perdita d’occhio e non lasciano posto all’immaginazione, Paternal leave non ha la pretesa di raccontare più della tematica rappresentata. Le figure di contorno, che sono una finestra su altri mondi, accennano soltanto quello che è un pianeta sconosciuto, a volte fermo in un tempo passato, per una ragazzina tedesca. Se il rapporto padre – figlia è stato affrontano in innumerevoli prodotti cinematografici, televisivi e non solo, così come il tema dell’abbandono, di una figlia che cresce senza quella figura identitaria paterna, Alissa Jung opera con una certa astuzia nel non rendere tutto troppo già visto.
Tutto ciò che il film non è lo rende originale nel trattare uno dei temi più comuni del cinema italiano e internazionale

La connessione – tra i due personaggi – che si potrebbe anche non costruire mai, non sta comunque in ciò che si condivide, ma in come lo si condivide. E per quanto tutto è inizialmente filtrato dagli occhi di una teenager che si è sentita sola, non voluta e frutto di un errore giovanile, ci si sposta poi anche dall’altra parte, quella di un ragazzo poco più grande di lei che anni prima non ha trovato altra via che fuggire. L’inesperienza, la paura, l’indolenza e la riluttanza di un giovane che si sente incompiuto e incerto non è in Paternal leave, una colpa irrimediabile. Al tempo stesso il rancore e la freddezza da parte di Leo hanno la loro genesi nel crescere per quindici anni senza avere idea di chi sia il proprio padre. Scoprire che vive in un altro Paese, che parla un’altra lingua e, quando lo incontra, che conduce un’altra, distante e lontana esistenza, rende un rapporto mai nato ancora più difficile da esprimersi di come ci si potrebbe aspettare.
Nè melenso né ridondante e neanche ricercato, Paternal leave è moderato e contenuto: le emozioni sono controllate e visibili, forti e burrascose, ma mai esagerate. In troppe mancanze non tutte colmabili. Come nel film non è tutto così palese, per quanto ci siano intere svolte già viste e quindi prevedibili, anche la macchina da presa si trattiene, rimandando, temporeggiando, quasi procrastinando un taglio di montaggio che sposti l’attenzione su altro. Panoramiche, campi lunghissimi e una maggiore ricercatezza nell’immagine puramente estetica, che contrappone le riprese dei primi piani a quelle di un ambiente circostante che è sconfinato e immenso. Tutto appare senza fine, quasi inospitale e abbandonato. In una sceneggiatura che è asciutta e stringata, a trasmettere quanto spesso non ci siano parole capaci di comunicare realmente ciò che solo nell’animo umano acquista un senso.
Paternal leave: valutazione e conclusione

Avvalendosi di una location che nelle atmosfere più rigide e umide dell’inverno nelle zone di mare, la fotografia di Paternal leave riesce a brillare anche in colori freddi e tutt’altro che vivaci. Ma che comunque emanano una luce morbida, tenue, che alterna uno stile più luminoso ad uno più offuscato, in base a quello che accade, che provano i personaggi e in base a quanto vicino al mare ci si trovi. Un mare gelido, mosso, di un blu estinto, striato di grigio. Vicino alle lagune costiere dove i fenicotteri invece scintillano di un rosa acceso, di un bianco latte e di tutte le loro sfumature.
Non è dato sapere allo spettatore dove andrà l’incontro tra i due protagonisti, né a cosa porterà, quello che è certo è che da dramma famigliare Paternal leave si trasforma in un romanzo di formazione dove due personaggi imperfetti, ostili e a volte stessi protagonisti di passi falsi che non per tutti sono ammissibili, hanno di fronte a sé una maturità da portare ancora a compimento. In due fasi diverse della vita, c’è una soglia che va superata, una consapevolezza che va acquisita e un equilibrio che va stabilito. Un cerchio da chiudere prima che se ne apra un altro.
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