L’infinito: recensione del film di Umberto Contarello

Lo scrittore e sceneggiatore Umberto Contarello esordisce dietro la macchina da presa con L'infinito, in sala dal 15 maggio 2025.

Umberto Contarello firma il suo primo film da regista dopo una carriera da scrittore e sceneggiatore che l’ha visto scrivere film come Tutto il mio folle amore, La grande bellezza, This Must Be The Place, Lascia perdere, Johnny!, La lingua del santo e moltissimi altri. Co-sceneggiato e prodotto da Paolo Sorrentino e interpretato dallo stesso Umberto Contarello, L’infinito racconta la vita di uno sceneggiatore che dal successo si ritrova catapultato in una carriera che sente in declino, preda di ricordi del passato che lo portano a non vivere il presente. Quello di Umberto è un crollo emotivo più umano che artistico e forse accettarlo è il vero modo per scoprire che la fine dell’ispirazione o della carriera non coincide con la fine dell’esistenza. Con nel cast anche Carolina Sala, Margherita Rebeggiani, Eric Claire, Lea Gramsdorff, Alessandro Pacioni, Stefania Barca, Lena Guerre, Tahnee Rodriguez, insieme a molti altri, il film è in sala dal 15 maggio 2025 distribuito dalla PiperFilm.

Il senso dell’infinito e l’impossibilità di definirlo

L’infinito è l’infinito matematico che è affascinante e oggetto di studio; è l’infinito di Leopardi che suscita emozioni, ma che nel suo essere senza fine è un qualcosa di inafferrabile e irraggiungibile; è quell’infinita ispirazione di cui c’è bisogno per creare storie, per dare pace, stabilità e serenità ai personaggi che vivono sugli schermi, e sulle pagine, senza riuscire ad arrivare alla propria di quiete intellettiva. Perché è l’intelletto, sinonimo di ragione, conoscenza, genialità, logica e perspicacia ad essere al centro dell’infinito. La creatività che fa male, che non fa dormire, che è un continuo flusso di pensieri, per l’Umberto Contarello del film, è la mancanza di idee e la sensazione di non avere nulla da dire, un qualcosa che comunque non fa dormire, fa male ed è un flusso continuo di sensazioni che non si possono descrivere.

Non sono definite, non sono del tutto positive o del tutto negative, e la felicità è sempre pervasa di tristezza e la frustrazione di tranquillità. I riferimenti al cinema di Contarello, sceneggiatore che ha lavorato con Sorrentino, Mazzacurati, Salvatores si vedono e captano. Ma parlando di scrittura e sceneggiatura vengono anche espressi nei dialoghi, nel tempo sospeso di una risposta non data, nello scambio di battute metaforico che traslano copioni e storie nel più lontano paragone possibile. Ecco che il film si modula in un carattere surreale, in un tono fantasioso che è l’apice dalla finzione, il cuore dell’immaginazione che, per assodato, prima o poi mentirà. La figlia chiama Umberto “fabbricante di bugie” come qualsiasi creativo e sceneggiatore sarà mai stato, almeno una volta, nella sua carriera, e quindi nella sua esistenza.

La crisi dello sceneggiatore, la crisi dell’individuo, la crisi dell’essere umano

L'infinito

In un momento di crisi anche il proprio capolavoro, nel film di Contarello, è visto come un contenitore di falsità, una trappola di emozioni ordita alle spalle del suo pubblico ignaro e inesperto dell’eloquenza espressiva e trainante di una storia. L’infinito è un film esistenziale sul senso della vita e la crisi dell’individuo. Un vuoto interiore che coincide con quello che sente uno sceneggiatore che ha smarrito la propria vena poetica, che nella disperazione di non avere più nulla da dire nota nelle piccole cose l’estro più incantevole, amabile, eccezionale. Ecco che il film apre un varco verso una dimensione più onirica, sognante e fantasmagorica che finisce per abbracciare completamente. Una novizia che Umberto vede da lontano, pulire con cura, con un panno, come si faceva una volta, i vetri di una finestra, senza accorgersi di essere osservata, è un faro contemplativo lirico ed elegiaco, che rimanda a un tempo dove, come lo sceneggiatore aveva qualcosa da dire, l’uomo aveva qualcosa per cui vivere.

L’infinito, attraverso una narrazione non convenzionale, e una messa in scena lineare, chiara, naturale e sobria è un idillio mesto e appassionato di un quotidiano che non basta, ma che bisognerebbe forse ritrovare. Senza cadere in quella spirale infinita del trovare, a tutti i costi, un senso alla vita. Una vita che, non a caso, è quella di un’artista al servizio delle lacrime e delle gioie di orde di sconosciuti che sono stati spettatori dei suoi scritti diventanti cinema. L’infinito è anche un film nel film, dove si parla di turning point, di struttura in tre atti, di concept e genere. E dove anche lì, tutto si risolve in una scena che racchiude la casualità di un mondo fugace, evanescente, labile ed effimero, capace di crollare e rompersi in mille pezzi per una breve folata di vento. A volte L’infinito di Umberto Contarello sembra pura meditazione su quel vuoto interiore che quasi mai è dell’artista, ma dell’uomo, e la storia quella di un essere umano la cui vera ricerca è emotiva. Quello che gli manca è il sentire, il provare di nuovo qualcosa. La svolta, il climax, appunto, il turning point.

L’infinito è forse l’indescrivibile potere creativo di uno sceneggiatore

L'infinito

Gli sceneggiatori vivono per anni con un potere incredibile che nasce dalla loro mani, che trasformano in parole ciò che hanno nella mente. Lo sceneggiatore costruire, pezzo dopo pezzo, l’anima interiore dei suoi personaggi, li fa muovere, pensare, amare, odiare, sbagliare. Sceglie lui le loro svolte, la loro fine, la loro intera esistenza. Eppure questo potere, nella vita reale, non gli dà nulla in più, è tutto affidato al caso, all’attesa, a sensazioni che, nelle pagine scritte, hanno un loro moto, un percorso, un punto da raggiungere. Ma nella realtà questo spiraglio di luce, speranza, traguardo o obiettivo non ha un tempo prestabilito, nessuno sceglie dall’alto la strada da intraprendere e, anche se fosse possibile, si sarebbe semplici marionette dal futuro, appunto, già scritto, pedine su una scacchiera manovrate da qualcun altro. Lo sceneggiatore è spesso l’artista invisibile, l’ingegno che ha riempito la pagina bianca, la figura dietro le quinte che, nell’ombra della sua stanza, nelle notti insonni, negli sguardi vacui di colleghi, come lui, senza ispirazione, hanno cercato, insieme, per mesi, ciò che poi è arrivato all’improvviso.

Attraverso spazi straordinari e indefiniti, in una casa dove l’ampiezza delle stanze sembra aumentare la solitudine e il senso di smarrimento, in una Roma vuota, magica e seducente. Una città che si distingue negli scorci che compaiono dietro i personaggi, dietro scene dove, concentrandosi sul dialogo, ogni tanto, sullo sfondo, quasi per caso, si vedono la Fontana dei Quattro fiumi del Bernini e la Chiesa di Sant’Agnese in Agone di Borromini, nel luogo che creò una rivalità diventata leggenda. Ma è anche una Roma a volte irriconoscibile, sia nel suo essere deserta, sia che in quei luoghi nascosti che spesso non attirano abbastanza l’attenzione. La macchina da presa esita e tentenna di fronte a una città unica, reale e immaginaria, in riprese che sembrano volersi soffermare su quanto ogni particolare dovrebbe animare lo spirito, lasciare senza fiato. Ma anche di fronte a quella bellezza, il film sembra suggerire che “l’essenziale è invisibile agli occhi”, come scrisse Antoine de Saint-Exupéry nel suo celebre Il Piccolo Principe. In una frase che esaltava i legami emotivi.

L’infinito: valutazione e conclusione

L'infinito

I dialoghi laconici e ridotti all’osso smorzano un tempo che invece porta lo spettatore a guardare e osservare la scena nella sua interezza, dai dettagli celati alla suggestione che scaturiscono immagini a camera fissa, piani a due che non leggono le espressioni sui volti, ma la distanza che intercorre tra due figure vicine. Ogni scena in L’infinito è un quadro, ogni incontro è assurdo e irreale, ogni personaggio potrebbe essere la svolta che il protagonista aspetta. Ogni figura ha il suo mondo, il suo dolore, la sua perdita d’ispirazione e il suo segreto. Un mondo che Umberto osserva, come fa uno sceneggiatore, immaginando anche ciò che non vede. Forse la crisi creativa non è solo quella di non aver più nulla da dire, ma la convinzione di aver esaurito il tempo per dire qualcosa che possa essere realmente compreso e capito. Spesso coincide con la crisi dello sceneggiatore che vede improvvisamente ciò che ha scritto trasformato in immagini. Capendo, ancora una volta, che a disegnare la storia sullo schermo è la mano di qualcun altro.

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Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.4