Paul: recensione del documentario di Denis Côté

La comparsa di Paul sullo schermo è un passo di fragile audacia; ogni gesto, il lieve tintinnio del secchio azzurro svelano i timori nascosti di un uomo che si rivela lentamente, senza fretta né forzature. Con rara delicatezza, Denis Côté plasma un cinema che coinvolge lo spettatore, dove la poesia dei dettagli si fa sottile riflessione sulla solitudine e sull’ansia contemporanea.

La prima apparizione del Paul di Denis Côté sullo schermo è un ingresso misurato, quasi trattenuto, come se il personaggio temesse di turbare lo spazio stesso del documentario. Avanza con l’andatura incerta di chi ha trascorso troppo tempo a sottrarsi agli sguardi altrui, trascinando un secchio azzurro il cui suono lieve, quasi domestico, accompagna ogni passo. In quel gesto elementare si condensa già la sua natura: un equilibrio precario tra il timore di esporsi e la necessità ineludibile di continuare a muoversi nel mondo. C’è qualcosa di profondamente umano in quell’istante, che non ha l’aria di un incipit cinematografico, ma piuttosto di un’emersione discreta, il venire alla luce di una presenza che si offre con cautela, come un animale che, dopo un inverno ostinato, esce finalmente dalla propria tana. Osservando Paul, sembra quasi che il film ci inviti ad adeguare il nostro sguardo alla sua stessa delicatezza, senza fretta, senza invadenza, lasciando che la sua fragilità trovi il tempo necessario per rivelarsi.

Paul: esistere piano

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Denis Côté filma tutto con un tatto quasi impalpabile. L’obiettivo rimane immobile, mantenendo una distanza misurata, come se intuire da troppo vicino potesse intimorire Paul e ricacciarlo nel suo guscio. Non è una distanza fredda, ma una forma di riguardo; un invito rivolto allo spettatore a contemplare senza sovrascrivere significati. Le inquadrature si distendono in tempi lunghi, lenti, pazienti, e il ritmo del film si modella su quello del protagonista, che si muove con la cautela di chi teme di occupare spazio, persino nel semplice atto di respirare. Nel suo camminare, nel pulire, nel sistemarsi i vestiti, l’ansia sociale affiora senza dover essere nominata; si manifesta negli sguardi evitati, nel modo in cui tenta di ritrarsi dentro la maglietta, nel fiato sospeso quando varca una soglia sconosciuta. Paul è un uomo che sembra chiedere scusa al mondo prima ancora di fare un passo. La sua ansia non deflagra mai, ma si deposita come una polvere sottile, aderendo silenziosamente a ciascuno dei suoi gesti.

La depressione, invece, possiede una temperatura diversa: più incisiva, opprimente, silenziosa. La si avverte soprattutto quando Paul registra i suoi video motivazionali; abbozza un sorriso, formula frasi di incoraggiamento, ma lo sguardo tradisce una stanchezza antica, il peso di chi ogni giorno tenta di persuadere prima di tutto sé stesso della possibilità di un cambiamento. Côté non amplifica questa vulnerabilità, la lascia affiorare con discrezione, senza trasformarla in spettacolo. È una depressione sommessa, che non esplode ma s’insinua nell’affanno con cui Paul si solleva da una sedia, nel modo in cui si lascia scivolare sul divano, nella fatica minuta che permea ogni suo gesto.

E poi c’è il rituale della pulizia. Quando Paul infila i guanti di gomma e si avvicina al secchio, sembra varcare la soglia di uno spazio respirabile. Il lavoro si trasforma in una sorta di architettura interiore, mentre riordina ciò che lo circonda, tenta di rimettere a posto anche ciò che dentro continua a vibrare in disequilibrio. Côté filma questi momenti con una delicatezza essenziale, priva di ogni orpello sonoro; rimangono solo il fruscio del panno sul tavolo, il gorgoglio dell’acqua, il respiro affaticato del protagonista. È come se l’ambiente stesso gli mormorasse che, almeno lì, può permettersi di esistere.

Le dominatrici che incontra non hanno nulla del potere teatrale che il loro ruolo potrebbe suggerire. Sono presenze che gli offrono un limite netto, un perimetro emotivo entro cui non è costretto a giustificarsi. Côté le riprende di scorcio o ne mostra soltanto le mani, lasciando Paul al centro dell’immagine. Non sono il fulcro del racconto, sono il contesto che gli impedisce di dissolversi. Nelle loro parole affiora un’attenzione sorprendentemente gentile. Non umiliano, non deridono, non assalgono; indicano, orientano, contengono. Ed è paradossale che proprio in quella guida, così rigidamente codificata, Paul trovi una libertà che fuori da quel perimetro non ha mai conosciuto.

L’intimità di Paul

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Il documentario vive allora in un doppio movimento: la versione di Paul che sorride nel formato verticale dei social e quella che si svela, più fragile, nel formato orizzontale del documentario. Côté mette questi due piani uno accanto all’altro senza giudicarli. Non c’è smascheramento, c’è un tentativo sincero di sopravvivenza. Verso la fine si comprende che Paul non vuole portarci verso una conclusione. E forse è qui che risiede il suo momento più delicato; non cerca di curare Paul, non lo trasforma in un caso da risolvere, non gli costruisce intorno una narrazione edificante. Lo lascia esistere nella sua imperfezione, e noi, insieme al regista, ne condividiamo il fragile passaggio nel mondo.

Quando il film finisce, Paul rimane. Non come un personaggio, non come un simbolo, non come un fenomeno. Resta come restano le persone vere: imperfette, complesse, profondamente delicate nella loro vulnerabilità. Ci lascia una domanda: quante vite così, invisibili e timide, attraversano le nostre giornate senza nessuna attenzione da parte nostra?

Paul: valutazione e conclusione

Nel suo silenzioso dispiegarsi, Paul rivela, con precisione quasi rituale, la grammatica visiva che da anni sostiene l’opera di Denis Côté, fondata sulla sottrazione, sulla sospensione e sulla fiducia nella porosità dell’immagine. Il regista non forza mai la mano; preferisce restare ai margini, come se ogni presenza potesse incrinarsi sotto un’eccessiva prossimità dello sguardo. L’obiettivo non cerca di appropriarsi della scena; lascia emergere, suggerisce senza definire.

Gli spazi sono rarefatti, ridotti all’essenziale, capaci di far affiorare ciò che in un contesto più saturo verrebbe inghiottito. Le pause diventano luoghi di ascolto, il documentario accoglie il tempo nella sua forma più vulnerabile, lasciandolo scorrere senza timore di rallentare. È un ritmo che non rincorre il senso, ma lo lascia insinuarsi. Il montaggio, misurato e attento, non chiude mai un movimento: lo lascia evaporare, con una continuità che deriva dal rispetto del tempo reale più che dalla linearità narrativa. La fotografia, morbida e naturale, evita ogni enfasi luministica, i volti non sono scolpiti, gli spazi non drammatizzati. È una luce che osserva senza toccare, come se temesse di alterare la densità emotiva di ciò che illumina.

In questo senso, Paul dialoga con la costellazione cinematografica di Côté: la contemplazione quasi zoologica di Bestiaire, il gelo sospeso e abitato di Curling, la quiete obliqua di Vic + Flo hanno visto un orso. In tutti, la realtà non è mai rappresentata frontalmente, emerge come un movimento laterale, una traccia che in questa visione si registra senza pretendere di esaurire. Con Paul, questa estetica raggiunge una forma particolarmente matura. Il documentario non si pone come lente interpretativa né come dispositivo di rivelazione, diventa spazio di ascolto, in cui la fragilità può affiorare senza essere costretta in narrazioni risolutive. La critica qui non definisce, non enuncia, ma si insinua come un battito sottile tra un’inquadratura e l’altra. Risulta un cinema che non si appropria del soggetto, non lo spiega né lo guida, permettendogli semplicemente di esistere nella sua inquieta dignità. Non tende la mano, non illumina, non racconta la vulnerabilità; la lascia respirare, come un movimento d’aria più che come un concetto.
Paul, diretto dal regista canadese Denis Côté, presentato nella sezione Panorama della 75ª Berlinale, è in concorso nazionale al FilmMakerFest. 

Regia - 4
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 3.5

3.2