Nino. 18 giorni : recensione del documentario di Toni D’Angelo
Nino. 18 giorni. è un'opera poetica e innovativa, ricca di cultura e sorpresa.
Ci sono film che non cercano di ricostruire una vita, ma di avvicinarsi al suo battito. Nino. 18 giorni, nelle sale italiane dal 20 al 24 novembre 2025 per Nexo Studios, appartiene a questa famiglia rara di opere che non vogliono spiegare, ma svelare. Il documentario che Toni D’Angelo dedica al padre Nino non è un omaggio né una cronaca: è un attraversamento. Un gesto intimo che si affida al cinema per dare forma a ciò che tra padre e figlio spesso resta sospeso, come una parola che si teme di pronunciare per intero.
Una regia che ascolta più che osservare

Toni D’Angelo sceglie una regia che sembra respirare insieme al protagonista. La macchina da presa rimane vicina senza essere invadente, rispettosa ma ferma, capace di lasciarsi sorprendere da ciò che accade quando la luce scivola sulle rughe o quando un’esitazione tradisce un pensiero rimasto troppo a lungo in fondo alla gola. È un modo di filmare che non addolcisce e non abbellisce, e proprio per questo restituisce un Nino D’Angelo raro, vulnerabile, quasi disarmato.
Si percepisce in ogni sequenza la volontà del regista di non filtrare, di non proteggere né tradire. È come se Toni cercasse una verità che non ha il coraggio di chiedere a voce, e la cercasse con l’unico strumento che entrambi riconoscono: l’arte.
Un montaggio che imita la memoria in Nino. 18 giorni
Il montaggio abbandona ogni linearità, preferendo un ritmo interno che ricorda il funzionamento del ricordo. Le immagini non seguono un ordine cronologico, ma emotivo: la memoria di un figlio che guarda il padre non distingue passato e presente, mescola le epoche, lascia che una prova teatrale richiami un’immagine d’archivio e che un sorriso si sovrapponga a una confessione arrivata vent’anni dopo.
Questa struttura fluida regala al film un’andatura quasi ipnotica. Si ha la sensazione di sfogliare un album di fotografie senza didascalie, dove l’importante non è “quando” ma “quanto” quel momento è rimasto sotto la pelle di chi lo ha vissuto. È un montaggio che chiede allo spettatore di abbandonarsi, di accettare che la comprensione arrivi non dalla precisione, ma dalla risonanza.
La musica come luogo del ritorno nel film su Nino D’Angelo
In un film dedicato a Nino D’Angelo la musica non è colonna sonora: è territorio. È il luogo dove il personaggio pubblico incontra l’uomo, dove il figlio ritrova il padre e il padre, forse, ritrova se stesso. Le canzoni emergono come memorie fisiche, come stanze che si riaprono dopo molto tempo. Risuonano nel film con un’intensità nuova, liberate dalle loro epoche, trasformate in puro sentimento.
È la musica che permette al documentario di non cadere nella malinconia facile. Invece di appesantire, solleva. Invece di spiegare, illumina. E in ogni nota si avverte l’impronta di un artista che ha fatto della vulnerabilità non un limite, ma un linguaggio.
Il film compone un’immagine di Nino D’Angelo che sfugge alle semplificazioni. Non c’è la retorica del riscatto popolare né la distanza del mito. C’è un uomo che guarda alla propria storia con la sincerità di chi sa di non potersi più permettere maschere. La depressione, la stanchezza, il bisogno di riconciliazione con la propria città, il peso dei giudizi e quello delle mancanze affettive emergono senza strappi, con una delicatezza che commuove perché non chiede nulla in cambio.
È un Nino che non si difende e non posa. È, semplicemente, un uomo attraversato dal tempo.
L’eredità invisibile e il peso della città
Uno dei temi più sottili del film è l’eredità. Non quella artistica, destinata a essere misurata con i dischi e con la memoria collettiva, ma quella silenziosa, quella che passa nei gesti, nelle assenze, nel modo in cui un figlio impara a comprendere un padre solo quando ormai è un adulto. Nino. 18 giorni parla della difficoltà di dirsi le cose importanti, e della grazia che a volte il cinema concede quando le parole non bastano.
In questo percorso interiore, Napoli è una presenza costante. Non appare quasi mai frontalmente, ma pulsa sotto ogni dialogo, sotto ogni pausa. È una città che è stata ferita e ferita ha restituito, una città che ti forma e ti giudica, un luogo da cui si fugge e a cui inevitabilmente si torna. Il film non la rappresenta: la fa sentire.
Nino. 18 giorni: valutazione e conclusione

Nino. 18 giorni è un documentario che non vuole dare forma definitiva a una figura, ma restituire il movimento interno di un legame. La sua forza sta nella sincerità, nella fragilità accolta e non nascosta, nella capacità di unire l’analisi alla poesia senza che una soffochi l’altra. È un’opera che rimane addosso come un abbraccio tardivo, come una canzone che non si riesce a togliere dalla mente perché parla a qualcosa di più profondo della memoria: parla al bisogno.
Non racconta soltanto Nino D’Angelo: racconta ciò che accade quando si trova finalmente il coraggio di guardarsi, padre e figlio, senza mediazioni. E in quel gesto, così semplice e così raro, il film trova la sua verità più luminosa.