Il Viaggio di ritorno: recensione del documentario di Alessandro Guerriero

Nei contesti minori nasce la fantasia più intensa: invettiva silenziosa che cresce nella vastità del paesaggio, dove la prospettiva rimane immutata ma il respiro emotivo si espande all’infinito. Ogni prolungamento filmico diventa epicentro poetico. Ne Il Viaggio di Ritorno, questi elementi trasformano la visione in meditazione continua sul cammino al rovescio, sulla malinconia costretta nell'appartenenza ,sulla leggerezza e l’asprezza del ricordo.

C’è una luce che non conosce confini, che attraversa colline, borghi e città come un uccello migratorio e insieme come un migrante umano che porta nel corpo il peso della distanza e la nostalgia di una casa lontana. Essa è il filo invisibile che percorre Il Viaggio di Ritorno di Alessandro Guerriero, tessendo un racconto sospeso tra memoria e invenzione, tra realtà cruda e percezione poetica, tra il respiro della provincia e la vertigine di una polis dimagrita. Nei paesaggi originari, la luce cade verticale, incisiva, restituendo al mondo la sua concretezza più nuda: i campi, le pietre, i volti, il lento movimento dei corpi. Ricorda la densità poetica di Vittorio De Seta, che nei suoi documentari etnografici mostrava il reale nella sua immediatezza senza mediazioni. Guerriero condivide questa ossessione: osservare senza performare, restituire senza costruire artifici, lasciando che la materia psicologica e urbana parli da sé, vibrante e viva.

Ali e radici

Il Viaggio di Ritorno; Cinematographe.it

Al centro del racconto Francesco, impiegato caseario di Acerra, in provincia di Napoli, e insieme a lui il suo microcosmo sospeso tra terra e cielo: la colombaia che suo padre aveva eretto sul tetto della casa d’infanzia. Ritornare in quel luogo non è solo gesto fisico, ma richiamo istintivo alla sicurezza, all’autenticità di sé. Qui, gli esseri che contano non sono uomini, ma i suoi colombi viaggiatori, i più forti tra i molti: creature di libertà, leggerezza e promessa. Allevare questi animali non si riduce soltanto alla cura, ma insinua la possibilità di dialogare silenziosamente con l’eredità familiare, confrontarsi con la propria identità più profonda. La colombaia si fa così rifugio e prigione insieme, spazio mentale in cui Francesco può finalmente essere sé stesso, ma anche teatro di un dominio delicato, confine sottile tra passione e ossessione.

La metafora si fa universale: la colomba, simbolo di speranza e libertà, può scegliere di non tornare, proprio come le aspirazioni e le memorie più intime. Francesco, immerso nel quotidiano del suo lavoro e nella cura dei suoi pennuti, vive questa tensione costante: possediamo davvero le nostre passioni o sono esse a possederci? Ne Il Viaggio di Ritorno, la domanda non è enunciata ma percepita, nel ritmo dei gesti, nella concentrazione dei movimenti, nel silenzio delle immagini che si allungano oltre ogni scrittura filmica.

La nudità dei corpi si intreccia alla bestialità intima della provincia, non come condanna, ma come verità pulsante e invettiva. I corpi sono fragili e concreti nelle gestualità quotidiane, nella cura, nella fatica, nel respiro della vita. Come le colombe, sono sospesi tra libertà e necessità, tra desiderio di fuga e ritorno obbligato, tra leggerezza e peso. La nudità e la bestialità intime diventano metafora della vita stessa: cruda, pulsante, autentica.

La luce è la narrativa del documentario 

Il Viaggio di Ritorno;
Cinematographe.it

Quando la luce attraversa la provincia, diventa esitante, tremante, come se temesse di violare l’architettura emotiva di case basse, cortili vuoti e piazze pettegole. La provincia si mostra come spazio sociale e psicologico, dove la memoria non è archivio ma tensione e l’assenza di ricordo pesa quanto la nostalgia. In queste inquadrature si avverte l’eco di Cecilia Mangini, capace di restituire vite ordinarie sospese tra ferite private e storia collettiva, e di Luigi Di Gianni, che nei paesaggi minori vedeva la densità emotiva più autentica.

Alessandro Guerriero restituisce questi spazi con uno sguardo che è insieme documentario e meditazione poetica, dove la macchina da presa diventa corpo che respira e sente evocando la stratificazione poetica di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, dove memoria e invenzione si intrecciano in modo indissolubile. La città, con la sua geometria artificiosa, diventa paesaggio emotivo, teatro di un conflitto tra ciò che eravamo e ciò che siamo costretti a diventare. ne Il viaggio di Ritorno, l’invenzione urbana dialoga con la crudezza provinciale, mostrando come ogni luogo possa essere corpo, memoria e tensione, privilegio di una condizione filosofica del cambiamento in prima persona.

La migrazione della luce segue quella degli uccelli: ritorno istintivo e inevitabile, parallelo a quello del migrante umano, sospeso tra desiderio e obbligo. L’assenza di ricordo è leggerezza arida; la nostalgia, peso incandescente. Guerriero filma questa tensione senza dichiararla, lasciando che i piani lunghi, le dissolvenze delicate e le prospettive si parlino tra loro, creando uno spazio dove passato e presente si fondono, memoria e realtà coesistono, e il ritorno diventa esperienza viva. In soli 17 minuti.

Nei contesti minori nasce la fantasia più intensa: invettiva silenziosa che cresce nella vastità del paesaggio, dove la prospettiva rimane immutata ma il respiro emotivo si espande all’infinito. Ogni orizzonte diventa epicentro poetico. In Il Viaggio di Ritorno, questi elementi trasformano la visione in meditazione continua sul cammino al rovescio e all’indietro, sulla malinconia statica, sulla leggerezza e l’asprezza del ricordo.

Il Viaggio di Ritorno: valutazione e conclusione

Il Viaggio di Ritorno;
Cinematographe.it

Il documentario non offre conclusioni, propone tensione, vibrazione, interrogazione. Ed è interessante. È un cinema che non riproduce il reale ma lo incarna in un viaggio longilineo e instabile mentale. In ogni fotogramma si percepisce l’architettura della provincia che non ha elevazione elitaria, non studia la classe politica e l’incespico culturale d’appartenenza, il battito bestiale, la sospensione tra passato e presente. La leggerezza del volo convive con l’asprezza del ritorno, e la verità delle cose minori si rivela più potente di qualsiasi artificio. Il Viaggio di Ritorno è semplicemente l’esperienza totale del dualismo locativo personale e impersonale: riflessione di un cinema orientativo e sapido di documentazione nella logistica del paradosso territoriale.

A conferma della sua forza evocativa e della qualità narrativa, il Viaggio di Ritorno è in concorso per la sezione Prospettive del FilmmakerFest. Uno sguardo delicato. Fotografia e regia di Alessandro Guerriero, montaggio di Elisabetta Giannini, suono di Michele Andreotti, musica di Raffaele Caputo, produzione Marechiaro Film.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 3

2.9