Unorthodox: recensione della prima stagione della miniserie Netflix

Una storia femminile che passa attraverso il corpo, a volte prigione e a volte libertà.

Esty – interpretata da Shira Haas, una delle giovani attrici più promettenti del panorama cinematografico e televisivo israeliano – è una giovanissima ragazza, appena diciottenne, appartenente alla comunità chassidica di Brooklyn, sposa di Yakov (Amit Rahav), da tutti chiamato Yanky, si sente intrappolata nella vita che le è stata cucita addosso e decide dopo una festa con la famiglia, di fuggire alla volta della Germania per ricominciare.

Questa è la storia di Unorthodox – miniserie creata da Anna Winger e Alexa Karolinski e composta da 4 episodi – che trae ispirazione dall’autobiografia di Deborah Feldman Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots (2012) – pubblicata in Italia con il titolo Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche – e che arriva su Netflix giovedì 26 marzo 2020.

Unorthodox, Cinematographe.itUnorthodox: alla ricerca della libertà

Unorthodox pone al centro Esty, il suo dolore, la sua solitudine e la sua paura. Non si tira indietro e, di minuto in minuto, mentre lo spettatore assiste alla sua fuga, entra anche nella casa della protagonista per spiegare il motivo della partenza. Ci si fa strada tra i fragili ma potenti legacci che tengono insieme lei e il marito. Esty prende il suo “niente”, lo mette in una valigia, lascia Williamsburg, il quartiere della città di New York dove vive la comunità chassidica Satmar, di cui fa parte e va alla ricerca di un angolo di libertà, la Germania, luogo in cui tempo prima si era rifugiata sua madre.

Una sorta di coazione a ripetere, un destino comune, no, è una vero e proprio atto di ribellione verso quel gruppo di ebrei ultraortodossi che vede l’Olocausto come una punizione divina e che per questo adotta uno stile di vita rigido per evitare che la Shoah si ripeta. Le donne vivono in uno stato di perenne inferiorità, non possono leggere né cantare perché la voce femminile potrebbe sedurre, i matrimonio sono combinati, la sessualità è un tabù, nessuno può parlare la lingua inglese; queste sono solo alcuni dei precetti con cui vengono cresciuti gli uomini e le donne come Esty.

Unorthodox racconta il suo viaggio e inizia mostrando la giovane a Berlino, spinta dal desiderio di liberarsi, pronta ad accogliere una nuova vita, grazie anche alla conoscenza di un gruppo di musicisti che diventeranno per lei, famiglia.

Unorthodox, Cinematographe.itUnorthodox: un racconto di emancipazione femminile

I giorni di Esty in America ci vengono narrati attraverso numerosi flashback, ricordi fondamentali per comprendere quell’animaletto spaventato, con i capelli rasati e gli occhi grandi che si guarda intorno spaesata ma piena di voglia di cambiare vita. Quel mondo che stride con quello della moderna Berlino ritorna anche attraverso l’arrivo in Germania da parte del marito e del cugino di lui. Tanto è impreparato alla vita (matrimoniale, sessuale, “maschia”) Yanky, tanto è insopportabile Moishe, molto ligio alle regole quando si tratta di Esty ma poi è il primo a infrangerle (usa lo smartphone, gioca alla roulette, conosce dei locali notturni equivoci).

“Ti convincono che senza di loro non potrai andare avanti nel mondo esterno”

Data dalla famiglia ad un altro uomo, la giovane passa da un “padrone” ad un altro, da un istituzione ad un’altra; durante la celebrazione del matrimonio è felice, serena, crede di poter incominciare un nuovo percorso – che le è stato insegnato essere quello giusto -, non sarà così invece. Il matrimonio e il concepimento del figlio diventano un peso insopportabile per lei che è stata costruita, educata e formata proprio per/a questo. Si racconta il tirocinio muliebre durante il quale Esty viene mal preparata alla sua prima volta – non rendendola consapevole, lasciandola in preda alla sua ansia -, attraverso pupazzi che riproducono l’organo maschile e femminile.

Ad Esty è stato insegnato che una moglie deve far sentire il proprio marito il Re a letto – ma non è consequenziale che lei sia la regina – e deve essere semplicemente “un recipiente”, le è stato detto che il sesso è un banale atto meccanico per procreare e niente più. Per lei invece perdere la verginità non è come per le altre, per lei avere un figlio non è la cosa più semplice del mondo e così le viene diagnosticato il vaginismo attraverso una macchina casalinga che legge lo stato d’ansia. Questo diventa uno scoglio invalicabile, una questione su cui sua suocera e il resto della famiglia discutono, parlano senza pensare a quanto lei possa soffrire.

“Guasta”, così viene definita e così si sente. Piange, chiede di tornare a casa ma la sua gente non può accettare l’abbandono da parte della moglie – mentre può accettarlo da parte del marito – e le viene chiesto e si impone di farsi ingravidare, nonostante i dolori, senza alcun interesse per il suo volere.

Unorthodox, Cinematographe.itUnorthodox: un corpo che cambia

“Io non ho quel buco”

La storia di Esty passa attraverso al suo corpo a lei sconosciuto, che viene coperto, messo sotto una campana di vetro – appena diventa moglie alla sposa vengono rasati i capelli – perché possibile veicolo di desideri sessuali, perché peccaminoso.

Il corpo femminile diventa un veicolo per pote dare alla luce un bambino, e la nudità diventa qualcosa da venerare proprio in virtù di questo: “non può esserci nulla tra la pelle e l’acqua” dicono a Esty durante uno degli innumerevoli riti prima del matrimonio per purificarla dal “terreno”, ma c’è un altro bagno dopo il quale la protagonista sarà veramente libera. La prima cosa che Esty fa quando arriva a Berlino e incontra dei nuovi amici è togliersi tutto ciò che le riporta alla memoria la sua esistenza in America. Al mare la giovane si spoglia, toglie la parrucca che era costretta ad indossare; e un ad uno gli abiti cadono e immergendosi nell’acqua si purifica dalla sofferenza e dalle lacrime.

Come in una sorta di “battesimo laico” la protagonista torna alla vita, o inizia a vivere: guarda il mondo con occhi nuovi, liberi, mangia un panino con il prosciutto, indossa un paio di jeans e un rossetto – la cui marca è Epiphany non a caso -, scopre il desiderio per l’uomo, conosce la parola amicizia e si rimette a suonare il pianoforte – la musica era l’unica fuga dalla sua esistenza. Quel corpo non è più in possesso di qualcuno, non viene più violato dalla comunità, dal marito ma è solo di lei stessa. Esty si scopre essere forte, tenace, libera, pronta a ricominciare con un sorriso nuovo sul volto.

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Unorthodox: un’opera potente che poggia sull’interpretazione di un’intensa protagonista

Unorthodox è un’opera potente di emancipazione che fa riflettere, commuovere e arrabbiare. Con i suoi pochi episodi – lunghi dal punto di vista temporale ma invece scorrono veloci -, riesce a condurre lo spettatore in un mondo lontano e nella storia di Esty, facendoci comprendere perfettamente sia la prigionia della donna ma anche le giornate di libertà in cui si sente finalmente se stessa. La miniserie parla e racconta con forza e semplicità una storia al femminile che parla, sente come una donna senza costruzioni o fittizi patetismi. Tutto questo è reso possibile dall’interpretazione meravigliosa di Shira Haas, capace di mostrare ogni sentimento, ogni sfumatura del suo personaggio.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4.5
Sonoro - 4
Emozione - 4.5

4.2

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