Roar: recensione della serie Apple TV+ con Nicole Kidman e Allison Brie

Roar è l'incontro tra la surrealtà distopica di Black Mirror e l'indagine femminista, per quanto quest'ultima stenti ad arrivare.

La serialità televisiva negli anni si è avvicinata sempre di più al dialogo con il contemporaneo, alle tematiche delle nostre tempo, sfuggendo al mero intrattenimento. Realtà e finzione narrativa intrecciano ormai un legame forte, costruito su continui scambi. In questo filone si inserisce Roar, la serie Apple TV+ creata da Liz Flahive e Carly Mensh e basata sull’omonimo romanzo di Cecelia Ahern. Otto episodi, otto storie differenti sull’essere donna oggi. Una produzione e un cast tutto al femminile denotano l’iniziale intenzione del prodotto: definirsi femminista in tutto e per tutto. Ogni racconto si concentra sull’essere madri, figlie, mogli o semplici oggetti del desiderio maschile. Roar è stata definita, con molta semplicità, un incontro tra Black Mirror e il movimento #MeToo. Questo perché nella sua formula antologica indaga anche le vie del fantastico, e soprattutto del distopico.

Tuttavia, a differenza della serie creata da Charlie Brooker, qui abbiamo ogni volta un happy ending. Il conflitto iniziale viene infine vinto, portando le varie protagoniste ad una nuova consapevolezza. Le intenzioni di Roar sono forti, palesi, ma lo stesso non si può dire del risultato. Se da una parte abbiamo un ottimo cast, in grado di portare sullo schermo delle interessanti interpretazioni, dall’altro la sceneggiatura imbriglia il talento in formule narrative molto semplici e fuori focus. Inoltre, trattandosi di una serie femminista ci si aspetterebbe una certa omogeneità tra i vari racconti, cosa invece assente. Passiamo da storie di razzismo ad altre di misoginia, ma la componente femminile è sempre affiancata ad una contrapposizione maschile.

Da Nicole Kidman a Allison Brie, le protagoniste di Roar

Roar - Cinematographe.it

Il primo capitolo, intitolato La donna che scompariva, vede protagonista Wanda (Issa rae), una scrittrice afroamericana in viaggio ad Hollywood per la trasposizione del suo romanzo. Davanti a sé trova un gruppo di maschi bianchi poco interessati alle sue idee e più propensi al profitto. L’episodio mostra l’appropriazione del dolore altrui da parte dei media, ed è nell’esatto momento in cui la protagonista non viene ascoltata che scompare. Il suo vissuto e il trauma subito dopo gli episodi di razzismo verso il padre le vengono quasi rubati, mercificati in onore dei soldi e lussuose case in collina. Soltanto dopo il consiglio del suo autista, Wanda riuscirà a riappropriarsi della propria essenza.

La puntata che vede protagonista Nicole Kidman, La donna che mangiava fotografie segue un percorso diverso, incentrandosi sulla figura di madre e figlia e viceversa. Qui a brillare è Nicole Kidman e la sua interpretazione, per quanto l’episodio non brilli per originalità. Controverso è invece l’episodio La donna che era tenuta su uno scaffale. Qui la protagonista, interpretata da Betty Gilpin, si trasforma letteralmente in un trofeo, un oggetto del desiderio e della “forza” maschile. Aspirazioni e volontà vengono represse e appese al muro, negate alla donna per una semplice soddisfazione personale, quella del compagno. Amelia diventa a tutti gli effetti una bambola, e soltanto in seguito fuggirà dalla propria prigione per crearne un’altra di sua volontà. Siamo difronte ad un finale ambiguo, dove la colpa di tale gesto sembra ricadere sul suo passato da baby modella o sulla sicurezza che lo scaffale le ha dato. Roar anche qui sembra allontanarsi dall’intenzione iniziale.

Roar  - Cinematographe.it

Diverso è il caso dell’episodio La donna con i morsi sulla pelle. Qui Roar compie un grosso passo in avanti, costruendo a nostro avviso l’episodio migliore dell’intera stagione. Dalle tinte horror alla difficoltà di essere madre e donna in carriera, la storia confeziona un percorso coerente e interessante. Il finale rimarrà comunque ambiguo, e non saprà dirci se ciò che la protagonista ha imparato di sé stessa lo saprà mettere in atto.

Una serie dalla forte intenzione femminista ma fin troppo eterogenea

Roar  - Cinematographe.it

Roar è un oggetto contraddittorio, da una parte si innalza come motore della discussione femminista, ma purtroppo nella messa in scena non riesce a veicolarne il messaggio. Come dicevamo manca una certa omogeneità narrativa, in quanto siamo difronte a otto storie di donne eterosessuali. La serie si concentra su una stretta cerchia tematica, lasciando al suo esterno un mondo intero. Con ciò non voglio dire che ogni serie debba essere dello stampo Netflix: inclusività a tutti costi. Eppure, trattandosi di una serie con dei forti intenti femministi, sembra mancare una grossa fetta del discorso. Inoltre, le protagoniste sono sempre affiancate da una personalità maschile, in alcuni casi fulcro risolutore della loro situazione. In altri, invece, Roar urla contro il castello del patriarcato, rivendicando spazi e libertà finora precluse.

La serie ideata da Liz Flahive e Carly Mensh non è perfetta, almeno non nella somma della sua parti. Alcuni singoli episodi – se non proprio scene- riescono a risollevare un prodotto che rende onore al suo messaggio, almeno non fino alla fine. Comunque, l’episodio con protagonista Alison Brie, La donna che ha risolto il suo omicidio, risolleva questa prima stagione. La storia è comandata dalla protagonista, è lei a risolvere il proprio assassinio per mano di un insospettabile personaggio membro di una terribile e misogina community in cui si invoca all’odio e alla violenza. Anche qui non tutto è ben strutturato, soprattutto verso il finale, ma se ne apprezza comunque l’intenzione.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

2.8