Ritmo selvaggio: recensione della serie TV Netflix

Dal 2 marzo 2022 arriva su Netflix il nuovo drama colombiano Ritmo selvaggio, la storia di due ballerine opposte per formazione e ambienti di provenienza, ma unite dalla stessa passione: l’amore per la danza.

Dalla Colombia direttamente su Netflix, dal 2 marzo è disponibile in catalogo la nuova serie tv Ritmo selvaggio, un dance drama in otto episodi diretto da Rafael Martínez Moreno e Simon Brand, con la collaborazione produttiva di Caracol Televisión, la stessa che dal 2018 al 2021 ha dato vita al successo di La regina del flow.

Ritmo selvaggio: dal palcoscenico del teatro al barrio latino

ritmo selvaggio cinematographe.it

La serie vede protagoniste due danzatrici diametralmente opposte: Antonia, interpretata da Paulina Dávila, formatasi nella prestigiosa accademia Royal ma mal supportata dalla madre che la vorrebbe vedere un giorno avvocato, e Karina, interpretata invece da Greeicy Rendón, ragazza del barrio che a malapena ha i soldi per a sopravvivere, e parte del gruppo “Pura Kaye”, quartetto con il quale si esibisce nei locali notturni dei quartieri periferici con altre tre inseparabili amiche e ballerine.

È proprio in una di quelle serate che la prima, Antonia, rimane affascinata dal flow delle quattro appena viste sul palco, così, per perfezionare il suo stile in occasione di un casting per un nuovo spettacolo, la giovane chiede a Karina di aiutarla con quelle non facili movenze, in una sorta di patto segreto che invece di risolversi in uno scambio equo e senza intoppi, trascinerà, a vicenda, l’una nel mondo sconosciuto dell’altra.

Hip-hop, reggaeton, twerking e cumbia: un mix di stili per una serie, senza dubbio, di carattere

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Per coloro che già conoscono lo stile urban di derivazione sudamericana, quello influenzato dal mix colombiano fra cumbia, twerking e reggaeton, non c’è da rimanere delusi per le varie sezioni coreografiche che riempiono le puntate di Ritmo selvaggio. La danza infatti non è assolutamente un aspetto marginale della narrazione, ma anzi si fa protagonista centrale di una storia evidentemente troppo esile per non essere sopportata adeguatamente da vere e proprie performance a tutto tondo, capaci di sfruttare qualsiasi ambiente e spazio del racconto per imporsi come veicolo comunicativo preferenziale di sentimenti, esperienze e stati d’animo.

La serie, va detto infatti, non ha la capacità di esporre in autonomia aspetti inediti e approfondimenti sufficienti del mondo della danza, rappresentato come molto spesso è stato fatto con le solite diatribe interne fra studenti dell’accademia, piegati ai giochi di competizione, ambizione e rapporto problematico con gli insegnanti, mossi nel sottotraccia dell’incontro/scontro fra due mondi con i conseguenti flirt amorosi e impossibili, intrighi e guai con la giustizia. Dunque, da questo punto di vista, Ritmo selvaggio ha davvero poco da offrire.

Orgoglio latino e stile dichiaratamente ‘oltre’ nella serie colombiana Ritmo selvaggio

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È invece nel suo appeal dichiaratamente estremo e, appunto, selvaggio, nel suo stile spregiudicato dei look e delle musiche tecno, nell’estetica smaccatamente kitsch alla ricerca voluta di una rozzezza (si passi il termine) tipica del barrio latino dove vita e mala(vita) s’intersecano inevitabilmente, che la serie ritrova paradossalmente il suo punto di forza, l’inconfondibile marchio di un prodotto che solo in Sud America, in particolare in Colombia, poteva riuscire in modo così convincente.

Ritmo selvaggio infatti ha la capacità di raccontarsi così com’è, di esporre orgogliosamente la sua anima rude e senza compromessi, messa in mostra non solo nelle routine coreografiche, ma nelle luci e nelle scelte registiche, nelle cromie e nelle forme striminzite dell’abbigliamento e degli accessori delle ragazze, nello slang e nei modi di fare dei personaggi, soprattutto quelli della cerchia suburbana di Karina.

Operazione per nulla scesa a compromessi ad un gusto universale e per questo, forse, capace di imporsi (non a tutti) per i suoi toni spregiudicati, iperbolici e scalmanati, la serie su Netflix è senza dubbio non imputabile d’anonimato e così fanaticamente ‘oltre’ che, superato il respingimento iniziale, si finisce non più a storcere il naso ma piuttosto ad essere coinvolti piacevolmente dal ritmo incalzante e seducente della danza e della colonna sonora, agevolata fra l’altro dal formato scivolato degli episodi: poco più che trenta minuti colmi di tutto, tranne che di noia.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 3

2.9

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