I Desideri del Genio: recensione della serie TV

Il pregiatissimo k-drama uscito su Netflix ha tutta l'aria di essere una favola dark più che una comedy.

Regia - 0.3
Sceneggiatura - 0.3
Fotografia - 0.3
Recitazione - 0.4
Sonoro - 0.4
Emozione - 0.3

0.3

I desideri del genio, il k-drama disponibile su Netflix che dà l’idea di essere una rom-com in costume dorato, manifesta sin dalle prime puntate i nervi del dark fantasy. Tredici episodi e una coppia da reunion che i fan attendevano da anni — Kim Woo-bin e Suzy — con un’idea forte alla base: un genio millenario riemerso per esaudire i desideri di una donna incapace di provare emozioni. La serie adopera con maestria la formula del “tre desideri” per ragionare sull’uso (e abuso) del libero arbitrio, sulla responsabilità di chi chiede e di chi esaudisce, ma in particolare su quanto amore e potere siano, spesso, la stessa tentazione raccontata con parole diverse. La premessa vede Ka-young (Suzy), anedonica per diagnosi, “otturata” dal punto di vista emotivo, confrontarsi con Iblis (Kim Woo-bin), il genio ironico permaloso e dotato di un’antica agenda. Il loro patto, gestito da regole rituali, si trasforma presto in una lotta a scacchi in cui ogni desiderio sposta il baricentro della storia: dalla richiesta “di prova” che mette alla berlina l’avidità umana, fino a un secondo desiderio che tocca i legami familiari e il tema della giovinezza restituita.

I desideri del genio: tra set fiabeschi e battute taglienti

I desideri del genio: recensione della serie TV-Cinematographe

Qui la serie esce dai binari della commedia sentimentale e si addensa: il tono è volutamente oscillante, con svolte melodrammatiche, elementi mitologici e una riflessione insistita su colpa, memoria e reincarnazione. Tra tutti elementi che hanno l’aria di essere cliché messi assieme, ma che in realtà hanno forti sfumature di spessore, il valore aggiunto è senza dubbio la scrittura di Kim Eun-sook, autrice che conosce i meccanismi del sentimento pop e li piega a un gioco di specchi morale. A questo punto, l’amore non diventa più la cura miracolosa, ma piuttosto un campo di prova dove i personaggi verificano la propria etica.

La sua penna dialoga con una messinscena che alterna set “fiabeschi” (le sequenze mediorientali, l’immaginario della lampada, la verticalità dei palazzi-tempio) a uno sguardo urbano più tagliente, che mantiene l’aderenza contemporanea del racconto. C’è da ammettere che questo complesso di cose funziona soprattutto per il fatto che la serie accetta di essere ibrida. L’intenzione, infatti, non è solo quella di farci tifare per la ship, ma di farci inciampare nelle conseguenze dei desideri esauditi. Inoltre, inutile negarlo, la reunion Woo-bin/Suzy è l’arma di richiamo e, per fortuna, non è solo questione di marketing. Woo-bin incarna un Iblis che non ha il distacco “onnipotente” di un’entità ultraterrena: è vanitoso, geloso, buffo quando serve, ma soprattutto stanco del male minore — ed è qui che l’attore trova sfumature nuove, tra sarcasmo e ferita antica.

I desideri del genio: valutazione e conclusione

Suzy, dal canto suo, lavora sul vuoto emotivo con una calibratura che evita il cliché dell’aliena algida: lascia filtrare micro-fratture nella performance, una mossa perfetta perché fa apparire ogni cambiamento come una conquista vera e propria, non regalata dalla magia. Tra l’uno e l’altro, è la chimica a colpire lo spettatore, dove i dialoghi appaiono più come battaglie morali che battute romantiche. Anche la regia (Ahn Gil-ho) dimostra di non avere sbavature particolari e sceglie di privilegiare un découpage classico con intermittenze barocche nei momenti “da desiderio”: flash visivi, ralenti controllati e cromie calde-deserto contrapposte al blu-acciaio del presente. L’equilibrio regge, ma investe principalmente una produzione a scala, unito a un accenno di world-building che “spiega” le regole del mondo di Iblis senza ingessarne la visione.

A questo punto, la vera domanda da porci è: e se i desideri non ci completassero, ma ci rivelassero per chi siamo davvero? Non a caso, ogni episodio lavora su un micro-caso di desiderio altrui che fa da specchio alla trama principale, con un taglio quasi antologico. Nonostante molti tra gli spettatori potrebbero leggere la serie come legge una sorta di “fiaba adulta”, quello che si potrebbe mettere in discussione sono alcune delle scelte terminologiche e di stampo religiose (il nome “Iblis”, l’iconografia del “genio” e della prova morale) ritenute da una parte degli spettatori poco sensibili rispetto ad alcune credenze. È il lato rischioso dell’ibridazione culturale ma, in ogni caso, I desideri del genio è una serie conversazionale che genera dibattito, funzionando soprattutto per chi cerca una love story disposta a sporcarsi le mani.

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