Dept. Q – Sezione casi irrisolti: recensione della serie Netflix
Colpa e ossessione nel cuore della Scozia sono le premesse della serie Netflix Dept. Q - Sezione casi irrisolti.
C’è qualcosa di profondamente inquietante, ma irresistibilmente affascinante, nella discesa verso il buio. Dept. Q – Sezione casi irrisolti, la serie Netflix adattata dai romanzi di Jussi Adler-Olsen e firmata da Scott Frank, è un thriller psicologico che esplora non solo i crimini irrisolti, ma soprattutto le fratture dell’anima. Ambientata in una Scozia gotica e impenetrabile, la serie si muove tra corridoi umidi, silenzi pieni di fantasmi e una colpa che diventa personaggio.
Dept. Q – Una serie noir scozzese ricca di sorprese

Carl Morck, interpretato da un sorprendente Matthew Goode, è tutto ciò che un eroe non dovrebbe essere: egocentrico, anaffettivo, distruttivo. Dopo un fallimento operativo che segna la morte di un giovane agente e la paralisi del collega, Morck sopravvive. Ma la sua rinascita ha il sapore amaro della punizione: relegato nel seminterrato del commissariato, deve occuparsi dei “cold case”, quelli che nessuno vuole più guardare. Nessuna gloria, solo muffa e silenzi.
Ed è proprio lì, nel ventre dell’istituzione, che Dept. Q trova la sua voce. Una voce sussurrata, piena di tensione, che non ha bisogno di colpi di scena urlati per catturare lo spettatore. La scrittura di Frank costruisce il ritmo con pazienza chirurgica, incastrando flashback e linee temporali con una precisione che avvolge come una nebbia fitta. Lo spettatore è chiamato a restare, a guardare, a lasciarsi invadere.
La forza della serie non è solo nella trama, ma nei suoi vuoti. Nei silenzi tra un dialogo e l’altro, nelle pause in cui i personaggi respirano troppo forte, nei corridoi vuoti dove la giustizia sembra essersi smarrita. L’indagine sulla scomparsa dell’avvocata Merritt Linguard diventa quasi secondaria rispetto alla discesa interiore di Morck, sempre più simile a un Orfeo contemporaneo che si ostina a guardare indietro.
Matthew Goode abbandona ogni grazia aristocratica per abbracciare un realismo sporco e disturbato. È spettro e carne, rabbia trattenuta e dolore che filtra negli occhi. La sua è una performance che lacera, senza mai cercare la complicità dello spettatore. Morck non è fatto per piacere, è fatto per essere compreso – a fatica.

Attorno a lui, una coralità spezzata ma vitale: la giovane Rose, fragile e testarda, interpretata da Leah Byrne, e Akram Salim, ex poliziotto siriano che porta con sé altre cicatrici, altre fughe. Ogni personaggio è un pezzo di un mosaico rotto, ognuno lotta per trovare senso in un mondo che non ne ha più.
Ma la vera protagonista è l’atmosfera: quella Scozia cupa e umida, in cui ogni strada sembra condurre a un passato che rifiuta di restare sepolto. Niente estetica patinata, nessuna indulgenza nel dolore. Solo realismo crudo, decadente e profondamente umano. Una scelta registica che riflette l’anima stessa della serie: guardare il male senza distogliere lo sguardo.
Conclusione e valutazione

Dept. Q non cerca risposte facili. Non dà certezze. Ti lascia con una sensazione di irrequietezza, come se qualcosa continuasse a muoversi sotto la pelle. È una serie che lavora per sottrazione, e proprio per questo lascia il segno. Il dolore qui non è spettacolo: è materia viva, non ancora del tutto rimarginata.
Un noir psicologico che si insinua piano, che non ha bisogno di gridare per farsi ascoltare. Perché le urla peggiori sono sempre quelle che restano soffocate. Dept.Q è una serie che mette il pubblico a disagio, ma un disagio di grande afflato drammatico e intrattenimento. La qualità è tanta, il livello artistico altissimo. Davvero da non perdere!