Coming Out Colton: recensione della docu-serie Netflix

Il tema trattato in Coming Out Colton meriterebbe meno superficialità e più rispetto!

Sebbene la sezione Lgbtqi+ di Netflix sia ricca di film, serie e documentari interessanti, ci si può imbattere in prodotti di bassa qualità, come nel caso di Coming Out Colton. Uscita lo scorso dicembre, in effetti, la docu-serie non ha riscosso un grande interesse da parte del pubblico. Il centro della vicenda narrata è il coming out di Colton Underwood, ex stella del Football americano ed ex concorrente del reality show The Bachelor. A soli 29 anni, la sua carriera è già al capolinea – il che è frequente tra gli sportivi – e su di lui pesa un ordine restrittivo a causa di una denuncia per stalking presentata dalla ex fidanzata Cassie Randolph, conosciuta proprio durante la partecipazione al reality. L’uomo, reo confesso, aveva inviato messaggi molesti da un numero anonimo e aveva piazzato, di nascosto, un dispositivo gps sulla macchina per controllarne gli spostamenti.

Coming Out Colton: da colpevole a capro espiatorio il passo è breve!

coming out colton

Siamo tutti d’accordo nel condannare la condotta scellerata di Underwood, ma lascia a dir poco perplessi il percorso compiuto per acquisire la consapevolezza dei propri errori. Il protagonista ha dichiarato la sua omosessualità davanti alle telecamere del seguitissimo Good Morning America. Prima ha chiesto scusa per le molestie per poi offrire una spiegazione del suo comportamento che suona più o meno così: soffrivo tanto per la non accettazione della mia vera identità da avere fatto cose orribili, tra cui perseguitare la povera Cassie e abusare di psicofarmaci quasi fino a morirne. È la stessa tesi che fa sfondo ai sei episodi della serie su Netflix e che gli sentiamo ripetere fino allo sfinimento. Da colpevole Colton si trasforma in una sorta di capro espiatorio di sé stesso: si condanna e si assolve per non essere stato sincero né con Cassie né con le altre 29 pretendenti di The Bachelor. Come una ragno che ordisce pazientemente la sua ragnatela, lo vediamo salire e scendere dagli aerei per andare dalla madre, dalla migliore amica, dal fratello, dal padre, e perfino dall’ex allenatore delle scuole superiori a comunicare a tutti loro di essere gay, di essersi pentito per non averlo detto prima, di avere sbagliato nei confronti della sua ex. L’autoflagellazione di Colton sembra non conoscere limiti, tant’è che torna a Los Angeles per scusarsi perfino con i migliori amici gay di Cassie, anche perché la donna comprensibilmente non vuole più vederlo. Molte di queste persone, che dovrebbero conoscerlo bene, si mostrano più sorprese dalla rivelazione del suo orientamento sessuale che dal racconto delle condotte autodistruttive che l’hanno portato ad un passo dal carcere e dalla tomba. In fondo, sono poche e dette mal volentieri le parole di comprensione per lui.

Colton è al centro di un paradosso: la sua autenticità può essere ratificata solo dalla finzione televisiva

Uno tra gli aspetti più paradossali di Coming Out Colton è il continuo richiamarsi al valore dell’autenticità, nell’ambito di una finzione televisiva resa ancor più evidente e sgradevole dalle scarse capacità recitative dei personaggi. È vero che questo è il meccanismo che tiene in piedi i reality di tutto il mondo, ovvero fingere di mostrarsi autentici “per farsi conoscere davvero dal pubblico”, ma nel caso di Underwood si arriva al parossismo del coming out permanente. Il protagonista cerca conforto nella spiritualità di una Metropolitan Church, dove ad accoglierlo ci sono un prete gay e una reverenda transgender ed ex alcolista, che è forse l’unica presenza capace di dare un qualche spessore al racconto. Di fronte alle lacrime di Colton, non possiamo fare a meno di chiederci: perché nessuno si scusa con lui per avergli instillato un tale livello di pregiudizio da averlo reso il primo nemico di sé stesso? Perché Colton si limita a denunciare l’omofobia degli spogliatoi, senza capire che è stata proprio la mascolinità tossica imperante ad averlo quasi distrutto? Il fatto che queste domande rimangano inevase costituisce uno degli aspetti più problematici della serie che, nelle parole del protagonista, vorrebbe essere d’esempio per i giovani Lgbtqi+ di tutto il mondo. Eppure temi delicati come l’omofobia istituzionalizzata e quella interiorizzata, il pregiudizio e la discriminazione, meriterebbero un approccio meno superficiale di quello proposto da un reality.

Regia - 2
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 2
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.2

Tags: Netflix