La fidanzata: la regia di Robin Wright in 3 scelte cruciali (e vincenti)
Prima attrice, poi regista: Robin Wright torna a sorprenderci come mai prima d'ora.
Robin Wright non è solo la Laura de La fidanzata, la nuova serie TV in sei episodi disponibile nel catalogo di Prime Video. È un’attrice con una carriera ormai iconica: dalla principessa Buttercup de La storia fantastica (1987) alla Jenny di Forrest Gump (1994), fino all’implacabile Claire Underwood di House of Cards, ruolo che le è valso un Golden Globe e una consacrazione internazionale. Negli ultimi anni ha sperimentato anche dietro la macchina da presa – dirigendo diversi episodi di House of Cards e il film Land (2021) – affinando un linguaggio registico personale. Con La fidanzata (The Girlfriend), però, Wright compie un passo ulteriore: interpreta e contemporaneamente imposta il linguaggio della serie, dirigendo i primi episodi e fissando le regole del gioco per tutto l’arco narrativo. Ecco tre scelte-chiave in cui si vede la distanza (e il dialogo) tra Wright attrice e Wright regista.
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1. Robin Wright regista opta per le stesse scene girate “due volte”, con un risultato dinamico per la sua serie TV

Come regista, Wright abbraccia il dispositivo dei doppi punti di vista – Laura vs Cherry – non solo in montaggio, ma in regia: molte sequenze cruciali sono bloccate, girate e calibrate due volte, per restituire sfumature diverse di intenzione, minaccia e manipolazione. È una scelta che obbliga attrici e macchina da presa a “mentire in modo diverso” ad ogni passaggio: cambia il baricentro dell’inquadratura, si sposta il fuoco emotivo, slitta la percezione dello spettatore su chi stia dicendo la verità. Da interprete, Wright tiene il controllo dei micro-gesti (sorrisi trattenuti, rigidità delle spalle, sguardo che scruta), da regista orchestra un dispositivo di ambiguità ne La fidanzata che prospera proprio su quelle micro-varianti.
2. Grazie a Robin Wright in La fidanzata predomina la “grammatica visiva” del sospetto con spazi, costumi e camera in movimento

Wright, regista, costruisce un atlante visivo di classe e controllo: case-galleria, design lucido, wardrobe “corazzato”, movimenti di camera vellutati che fanno scivolare lo sguardo nei non detti. La scelta è doppia: estetizzare il benessere (per mostrare il potere) e insinuare crepe con una messa in scena fluida che non concede appigli. Da attrice, Wright occupa questi spazi come fossero armi sceniche; da regista, li usa per far percepire che la bellezza è un set di linee di forza (chi domina, chi viene escluso). Questa grammatica – impostata da Wright nei primi episodi e poi mantenuta coerente – diventa la cifra stilistica della mini-serie.
3. Se Wright ha una freddezza controllata in recitazione, dimostra “feral energy” alla regia de La Fidanzata

La Laura di Wright è un vero e proprio animale sociale di quelli glaciali: misura la parola, trattiene, osserva. È una recitazione a sottrazione, che raramente esplode. Da regista, invece, Wright alza il voltaggio: alterna intimità esplicita, scarti di violenza psicologica e momenti “ferali” che rendono la serie più carnale e scomoda del previsto. È una scelta consapevole di contrasto: l’interprete frena, la regista preme sull’acceleratore per fare della storia un duello predatorio fra due donne, soprattutto nella gestione dei picchi emotivi e del finale “psicotico” che chiede allo spettatore di rinegoziare ogni certezza. Se Wright scolpisce Laura con una precisione minimalista, tutta nel controllo del corpo e nella lettura del sottotesto, come regista impone un metodo totalmente diverso. Non fa altro che affondare le radici delle sue scelte registiche nella duplicazione prospettica delle scene, nella stilizzazione degli ambienti come campo di battaglia sociale e anche nella tensione emotiva portata al limite.
Il risultato è una serie che non chiede di credere a qualcuno, ma invita a diffidare di tutti – a partire dai nostri stessi occhi.