Legenden – L’Infiltrata: recensione della serie TV Netflix
Legenden-L'Infiltrata s'interroga sul vero senso dell'identità
Legenden – L’infiltrata, acquistata dalla piattaforma Netflix, è una miniserie danese che si muove dentro lo spy-thriller senza perdere tempo a cercare originalità forzata. Il presupposto dal quale parte è quello di puntare sulla coerenza tra tensione, identità e scelte sbagliate. La cosa strabiliante? È che tutto è così perfettamente bilanciato da funzionare, soprattutto perché resta aderente ai personaggi senza aggiunte superflue. La protagonista, Tea Lindeburg -interpretata con rigore da Viktoria Carmen Sonne —, non è altri che una poliziotta in addestramento, piena sia di talento grezzo sia di un passato che pesa. Per entrare nei giochi dei grandi, accetta di infilarsi sotto copertura.
Solo a questo punto, le creano un’identità nuova: Sara, gioielliera, il cui compito è semplice sulla carta, ma non nella realtà. Deve avvicinare Ashley (Angela Bundalovic), fidanzata di un boss della criminalità organizzata di Copenaghen. Tea è bravissima a osservare, ma lentamente scivola in un labirinto di potere in cui la stessa Ashley rappresenta il cliché della donna-ombra. Tra le due nasce un rapporto ambiguo, non una vera amicizia, più una sorta di collisione lenta che manda tutto fuori binario, a partire dalla distanza operativa (che salta talmente tanto da far dubitare Tea di essere ancora se stessa).
Legenden – L’infiltrata: la tensione tra i vuoti come forza (e debolezza) della serie

Uno snodo importante della narrazione è certamente rappresentato poi dalla rete criminale guidata da Kevin (Manoj Ramdas) che non ha fronzoli: niente villain teatrali, niente super-organizzazioni, solo gente pronta a una violenza senza sconti. La serie ha l’ambizione di non correre, ma di camminare al ritmo di episodi che spingono sempre un po’ più giù, senza troppo clamore di fondo. Anche l’ambientazione di Copenaghen è azzeccata, considerando quanto i luoghi -come club e appartamenti- siano freddi. Non esistono rifugi, ecco perché la fotografia stessa sceglie toni bassi, quasi spenti, pur di non spettacolarizzare la realtà. La sceneggiatura, invece, appare diretta ma con qualche falla.
Nonostante tenda a raccontare mostrando i fatti, spesso i non detti creano troppa ambiguità nello spettatore, a causa soprattutto dei dialoghi troppo striminziti. Potremmo dire che la forza di Legenden stia proprio qui -nella tensione tra i vuoti-, ma senza negare che, ogni tanto, le ambiguità di questa serie pesano in particolare modo nella comprensione del complessissimo sistema criminale che mette in scena. Onore poi ad Angela Bundalovic, che riesce a conferire ad Ashley una dolcezza “tagliata così male” da far paura. Manoj Ramdas, dal canto suo, incarna la minaccia silenziosa, grazie al controllo che impone su ogni forma di sbocco emotivo.
Legenden – L’infiltrata: valutazione e conclusione

Se dovessimo individuare il vero cuore della serie, questo sarebbe senza dubbio l’identità più profonda del sè. Quanto si può effettivamente mentire senza perdersi? Che cosa rimane di noi quando la missione ci inghiotte? Legenden – L’infiltrata non risponde, si limita a mostrare tante crepe che aleggiano sotto la superficie. Eppure, quando lo spettatore prova ad allargare lo sguardo sulla struttura criminale, qualcosa si sfoca. Manca profondità tanto su alcuni rapporti quanto su dinamiche esterne. Ecco perché il rischio è che certe parti restino sullo sfondo, come se non ci fosse abbastanza spazio per loro. Oltretutto, la serie rifiuta l’eroismo: ogni scelta pesa, nessuno viene salvato davvero.
Anche quando l’azione si accende, le uniche reali conseguenze arrivano dai dettagli (uno sguardo, una porta chiusa, o persino un silenzio scomodo). È qui che la serie tv Netflix fa male, nella normalità corrotta che rappresenta fino all’ultimo. In ogni caso, Legenden-L’Infiltrata resta un ottimo prodotto per chiunque sia in cerca di una storia sul chi siamo e sul chi potremmo essere se ci trasformassimo, dall’oggi al domani, in una persona totalmente diversa. Ed è affascinante quanto, alla fine, la domanda più importante sulla nostra identità resti esclusivamente interpretabile.