To Cook a Bear: recensione della serie TV Disney+
To Cook a Bear non è solo da guardare: è da respirare, da vivere, fino all’ultima scena.
Su Disney+ dal 15 ottobre 2025, To Cook a Bear si presenta come un dramma storico capace di restituire l’isolamento, il freddo e la durezza della Lapponia del 1852. La serie, tratta dall’omonimo romanzo di Mikael Niemi, non è solo un crime, ma un racconto sulla fede, sulla superstizione e sul peso delle scelte morali in un mondo sospeso tra leggenda e realtà.
Al centro della vicenda c’è il pastore Laestadius, interpretato da un magnetico Gustaf Skarsgård, accompagnato dal giovane figlio adottivo Jussi (Emil Karlsen). Il loro arrivo in un villaggio remoto porta con sé un vento di disciplina e moralità, ma anche inevitabili conflitti con chi è abituato a piegare il potere, la superstizione e la paura ai propri interessi. La scomparsa di Hilda, una giovane domestica, innesca la narrazione: il villaggio parla di un orso assassino, ma Laestadius percepisce che dietro la leggenda si nasconde qualcosa di profondamente umano e inquietante.
To Cook a Bear: la tensione tra fede e ragione

Ciò che rende To Cook a Bear affascinante non è tanto la risoluzione del mistero quanto il modo in cui la serie esplora il conflitto tra fede e ragione. Laestadius è un uomo tormentato, ossessionato dalla verità e incapace di chiudere gli occhi di fronte al male. Skarsgård restituisce questa complessità con una recitazione intensa e contenuta, fatta di sguardi e pause, più che di parole, lasciando che il suo personaggio occupi lo spazio con una presenza quasi fisica.
Jussi, al contrario, è la parte più fragile e sensibile del racconto. Il giovane Sami osserva il mondo con occhi pieni di meraviglia e timore, e la sua innocenza appare ancora più preziosa in un contesto dominato dalla violenza e dalla superstizione. La dinamica tra i due è uno dei punti più riusciti della serie: un legame tra guida e figlio, tra esperienza e fragilità, tra ragione e speranza.
Atmosfere e paesaggi: la natura come protagonista

Uno degli aspetti più riusciti della serie è l’uso dei paesaggi. La regia di Jesper W. Nielsen lascia respirare la Lapponia: la neve, i boschi, il cielo grigio diventano personaggi a pieno titolo, testimoni muti dei conflitti umani. Le inquadrature comunicano isolamento, tensione e mistero; la luce pallida, le ombre lunghe e il silenzio contribuiscono a costruire un mondo in cui ogni gesto assume significato e ogni parola pesa.
Anche il villaggio è rappresentato con cura: case di legno, strade silenziose, volti segnati dalla fatica e dal gelo, mani che lavorano e sopravvivono. Ogni dettaglio visivo contribuisce a creare una realtà credibile, in cui la paura, la superstizione e la religione non sono mai esagerazioni narrative, ma parte integrante della vita quotidiana.
Tra eccessi narrativi e poesia visiva

Non tutto funziona alla perfezione: le deduzioni del pastore, a volte quasi sovrumane, rischiano di scivolare nel grottesco, interrompendo la tensione meditativa che la serie costruisce con pazienza. Alcune scene sembrano appartenere più a un procedural moderno che a un dramma storico, creando un contrasto che può disturbare lo spettatore più attento.
Eppure, anche in questi momenti, To Cook a Bear conserva una forza simbolica notevole. Il grottesco e il sublime convivono, conferendo alla serie una tensione unica tra realtà e mito. È proprio questo equilibrio instabile a renderla affascinante e a differenziarla da molti altri drama nordici contemporanei.
To Cook a Bear: valutazione e conclusione
Alla fine, To Cook a Bear è un’opera che lascia il segno. È una serie che parla del peso della fede, del conflitto tra giustizia e vendetta, della paura che domina le comunità isolate. Non è perfetta, ma è viva: intensa, poetica, fredda come la Lapponia eppure capace di scaldare con la sua profondità emotiva.
Il mistero del bosco non riguarda l’orso, ma l’uomo stesso. Ed è in questo che la serie trova il suo cuore: nella capacità di farci sentire il gelo, di farci osservare la paura, la pietà e la curiosità negli occhi dei personaggi. To Cook a Bear non è solo da guardare: è da respirare, da vivere, fino all’ultima scena. E quando finisce, resta addosso come il silenzio della neve che cade, lenta, implacabile, perfetta nella sua crudezza.