IT il clown: perché abbiamo ancora paura di Pennywise?
I clown sono creature divertenti, ma come abbiamo ben imparato dal cinema, possono celare dei lati oscuri. Perché It ci fa ancora paura dopo tutti questi anni?
Pennywise, il clown, la creatura nata dalla mente dello scrittore Stephen King, torna sugli schermi con l’attesissima serie TV prequel, IT: Welcome to Derry, in uscita il 26 ottobre 2025 su Sky, prodotta da HBO. Conosciuto anche come “It”, la figura del clown ballerino continua a tormentare i nostri incubi fin dal 1986: che provenga dal romanzo originale, dagli adattamenti cinematografici o dalla nuova serie TV, Pennywise continua ancora oggi dopo quasi quarant’anni, a farci rabbrividire, non solo per la sua orrenda apparenza e le inquietanti movenze, ma per il modo in cui la sua figura agisce sulla sfera percettiva ed emotiva. It il clown è l’incrocio tra un’immagine che rovescia l’infanzia, una creatura che si nutre delle nostre paure più intime e un racconto che intreccia traumi individuali e malessere collettivo.
Chi é Pennywise: il mostro che si nutre della paura

Il nucleo del racconto di King è semplice quanto terrificante: It è un’entità che prende forma incarnando le paure delle sue vittime, accrescendo il proprio potere grazie a quegli stessi timori. Pennywise appare come clown perché la sua maschera dialoga direttamente con l’immaginario infantile, ma la sua natura è molto più ambigua e difficile da decifrare: Pennywise cambia forma, si camuffa, nutrendosi della paura stessa che lo provoca. Questo meccanismo trasforma l’orrore da evento isolato a un processo che si autoalimenta senza sosta.
La performance attoriale di Tim Curry nella prima trasposizione cinematografica del 1990 è stata considerata indimenticabile, contribuendo a rendere la figura di Pennywise ancora più spaventosa, grazie alla sua espressività e ad un elaboratissimo trucco prostetico ideato da Bart Mixon. Le trasposizioni recenti It (2017) e It: capitolo due (2019) hanno invece aggiornato il racconto ad un linguaggio visivo moderno: il ritmo della narrazione serrato, gli effetti speciali ancora più espliciti e l’inquietante interpretazione di Bill Skarsgård, hanno reso la figura di Pennywise quasi bestiale, puntando più sullo stravolgimento del volto umano che sul lato comico del clown It originale. I film hanno così trasformato l’icona in un simbolo nuovo per nuove paure, pur mantenendo il nucleo narrativo di King.

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It e la coulrofobia: l’uncanny valley e la rappresentazione mediatica
La paura intensa e irrazionale dei clown prende il nome di coulrofobia ed è un disturbo ampiamente riconosciuto che rientra nella categoria delle fobie. Questa paura non è solo un fenomeno culturale, bensì ha radici percettive. Il trucco clownesco altera i tratti facciali: un sorriso dipinto dalle proporzioni esagerate e colori innaturali che rendono tutt’altro che facile interpretare le reali emozioni dell’altro. Studi recenti sulla coulrofobia hanno cercato di capire le ragioni alla base di questa paura, sottolineando come fattori visivi e comportamentali, contribuiscano alla diffusione di questa paura. Non è sempre necessaria l’esperienza traumatica personale per sentirsi inquieti di fronte a un clown. In sostanza, la maschera e i comportamenti imprevedibili tipici dei clown, mettono il cervello in allerta: se non sai cosa sta provando l’altro, lo percepisci come potenzialmente pericoloso. Un fenomeno direttamente collegato alla deformazione dei volti è quello dell’uncanny valley, ovvero la sensazione di disagio e repulsione provata di fronte a figure che sembrano quasi, ma non del tutto, umane.
La percezione di pericolo verso i clown è stata inoltre accentuata dalla rappresentazione mediatica: numerosi film e serie TV hanno contribuito a trasformare la figura del clown da archetipo comico ad icona del terrore, enfatizzando e ripetendo l’elemento inquietante fino a renderlo familiare come immagine di paura. Ricordiamo tra i tanti esempi la serie American Horror Story con il personaggio di Wrinkles the Clown o il più recente Art, il teatrale clown del film Terrifier, che mutila brutalmente le sue vittime senza mai tralasciare la sua vena comica.
In sostanza, i clown continuano a spaventarci perché la loro figura riesce ad unire tre tipi di paura: quella percettiva, quella emotiva e quella sociale. Questa combinazione fa sì che la figura del clown resti adattabile: può essere riletta, reinterpretata, estetizzata, ma la sua forza ci colpisce esattamente dove siamo più vulnerabili.

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Perché Pennywise ci fa ancora paura?
Il cuore emotivo di It è il rapporto tra trauma, memoria e crescita. Bill Denbrough e i bambini del Club dei Perdenti sono bambini segnati da abusi, bullismo o trascurati dalla propria famiglia: sono queste ferite che rendono Pennywise efficace. Stephen King nel suo romanzo costruisce la città di Derry come un luogo che dimentica, rendendo l’amnesia collettiva una metafora della rimozione dei traumi. La lotta dei protagonisti non è solo contro una creatura mostruosa, ma diventa una lotta contro una città che chiude gli occhi di fronte alla violenza. Questo spiega perché la storia rimanga potente: la maledizione di Pennywise è qualcosa che non svanisce con gli anni, ma viene semplicemente messo a tacere, per poi riemergere violentemente.
Una chiave spesso sottolineata anche dagli analisti è quella che Pennywise non sarebbe lo stesso senza Derry: la cittadina diviene quasi un personaggio a sé. Indifferenza, razzismo, violenza domestica e dinamiche istituzionali che coprono o minimizzano i problemi creano il terreno ideale perché il male portato da It prosperi. It è un horror che ci racconta più della società che della storia di un singolo mostro: Pennywise diventa lo specchio di ciò che la comunità rifiuta di vedere. Questa lettura spiega anche la longevità del racconto: ogni epoca riconosce in Derry i propri mali. L’atteso prequel It: Welcome to Derry promette di esplorare il contesto sociale della cittadina, rimandando la rivelazione del clown per costruire una forte tensione. La scelta di approfondire i retroscena di Derry e di raccontare anche forme diverse dell’orrore, conferma l’idea che il terrore migliore non sia solo visivo ma soprattutto contestuale.
