Soleil Noir: recensione della serie TV Netflix
Soleil Noir, una serie emozionante e ricca di colpi di scena.
C’è un sole che non illumina. Un sole che incide. Che stratifica dolore sotto la pelle e scioglie ogni bellezza in febbre. Soleil Noir, miniserie thriller francese distribuita da Netflix a partire dal 9 luglio 2025, porta con sé la promessa disattesa di una luce. Non è il Mediterraneo che brilla qui, ma una Provenza satura e opaca, polverosa come i segreti che nasconde. Sei episodi diretti da Marie Jardillier ed Édouard Salier, sceneggiati con ordine e sottrazione da Nils-Antoine Sambuc, costruiscono un’indagine più interiore che giudiziaria, dove la verità non è tanto da scoprire quanto da accettare.
Una serie di qualità con grandi performance

Al centro della vicenda c’è Alba Mazier, interpretata con vibrante fragilità da Ava Baya, attrice e cantante franco-maliana al suo primo ruolo da protagonista in una produzione internazionale. Alba non è una donna forte, ma una madre determinata. È anche una sopravvissuta: alla tossicodipendenza, alla strada, all’indifferenza. Ed è proprio la necessità di dare un’altra possibilità al figlio Léo che la conduce nella tenuta Lasserre, una delle più potenti aziende floricole della regione. Lì lavora come stagionale, raccoglie fiori, suda, prova a respirare. Fino a quando il patriarca Arnaud Lasserre viene ritrovato morto nella serra. Alba diventa l’indiziata principale. Poi il DNA rivela l’indicibile: Alba è sua figlia biologica, l’erede dimenticata, forse rinnegata. L’omicidio diventa detonatore, e l’intera famiglia – quella legittima, composta dalla moglie Béatrice e dai tre figli ufficiali – comincia a scricchiolare sotto il peso della verità.
Isabelle Adjani interpreta Béatrice Delmare con il distacco gelido di chi ha già visto tutto. Non grida mai. Non supplica. Sorride con ferocia. La sua presenza è rituale e magnetica, come quella di una sacerdotessa che conosce il sacrificio, ma preferisce consumarlo in silenzio. Il funerale del marito – dove Béatrice si presenta in rosa shocking, scompigliando la grammatica del lutto – è la scena più citata dai critici francesi: pura messa in scena, dichiarazione di guerra in abito d’alta moda. Béatrice non vuole piangere, vuole vincere. E lo fa a colpi di frasi millimetriche, accanto al fianco armato dell’avvocatessa Manon Simoni, interpretata con grazia severa da Claire Romain.
Soleil Noir: la serie Tv Netflix tra soap e thriller

Ciò che colpisce davvero in Soleil Noir è l’intreccio tra il linguaggio della soap e la tensione del thriller. Gli autori non si vergognano dei loro strumenti: qui la suspense non nasce da inganni sofisticati, ma da parole dette con lentezza, da sguardi che evitano, da una tavola che non è più sacra ma terreno di ostilità quotidiana. È un dramma familiare, sì, ma non nel senso consueto. È piuttosto una radiografia dell’eredità emotiva, della rabbia che si trasmette come sangue infetto da una generazione all’altra. E proprio questo è il cuore pulsante della serie: la genealogia come condanna.
La Provenza filmata da Jardillier e Salier è tutto fuorché bucolica. I campi di lavanda sono immoti, immobili. Le case di pietra, invece di offrire rifugio, diventano casse acustiche di risonanza per dolori antichi. L’estetica visiva è calda, ma il calore non consola: esaspera. Non c’è una sola scena in cui il sole offra redenzione. Il titolo stesso, Soleil Noir, riecheggia la poesia di Gérard de Nerval e quell’idea romantica e perturbante della luce che tradisce, che brucia invece di scaldare. Ogni inquadratura è un frammento di questa contraddizione: la bellezza come inganno, l’armonia come maschera.
Il ritmo della serie è altalenante, ma non sbilanciato. Gli episodi iniziali sono più compassati, quasi timidi nel proporre il mistero. Poi il racconto accelera e si dirama, raggiungendo un’intensità più alta nei capitoli centrali. Tuttavia, nonostante l’impianto thriller, la serie non punta alla risoluzione dell’enigma come climax, quanto piuttosto all’evoluzione dei personaggi. Non si guarda per scoprire “chi ha ucciso”, ma per comprendere perché tutti abbiano avuto un buon motivo per farlo. Questo spostamento etico e narrativo è ciò che distingue Soleil Noir dai prodotti di genere più canonici.
Il merito maggiore della serie è quello di far convivere archetipi femminili opposti senza stereotiparli. Alba è istinto, ferita, carne viva. Béatrice è controllo, dominio, strategia. Due facce di una stessa medaglia che si scambia continuamente senso e valore. In mezzo, il potere maschile appare già morto all’inizio – letteralmente – come a dire che il futuro e il conflitto, la cura e la colpa, sono tutte declinazioni del femminile. Non è un caso che il figlio Léo diventi simbolo e oggetto di contesa: non come trofeo, ma come possibilità di ricominciare, anche nel fango della menzogna.
Soleil Noir: valutazione e conclusione
Soleil Noir è, in fondo, una storia di riconoscimento. Riconoscere la madre dove si credeva ci fosse una nemica. Riconoscere il sangue, anche quando sporco. Riconoscere le ombre come parte dell’eredità. Non è perfetta. La sceneggiatura inciampa talvolta in dialoghi troppo costruiti, e alcuni passaggi sembrano piegarsi all’effetto più che alla coerenza. Ma il disegno generale è chiaro, deciso, elegante. Come una firma apposta su una lettera mai spedita.
La serie si conclude lasciando dietro di sé un terreno smosso. Non solo quello fisico, delle serre e dei campi, ma anche quello emotivo, dei legami riscoperti e delle ferite riaperte. Soleil Noir non è un’indagine. È un’implosione. Una lenta detonazione dell’identità sotto il peso della verità. E quando cala l’ultima inquadratura, non resta che il rumore secco di un campo troppo silenzioso. E il sole, ancora alto, che brucia senza più chiedere permesso.