Rick and Morty – stagione 8: recensione della brillante serie animata Netflix
C’è qualcosa di sorprendentemente lirico nel ritorno di Rick and Morty con la stagione 8. Come un’opera che conosce già i suoi eccessi e li orchestra con la precisione di un direttore d’orchestra impazzito, la serie torna sugli schermi con la consapevolezza del proprio passato e il coraggio di guardare oltre. La voce non è più la stessa – eppure lo spirito sì. Ian Cardoni e Harry Belden non imitano: interpretano. E lo fanno con un’intelligenza attoriale che trasforma ogni battuta in un atto di riconquista.
Rick and Morty 8: una stagione brillante, un vero nuovo inizio

Il primo episodio, Summer of All Fears, è già un manifesto: un telefono non restituito scatena un’odissea psichica che sembra scritta da Camus in acido lisergico. La banalità del quotidiano si contorce in una riflessione grottesca sulla colpa, sull’incomprensione generazionale, e sulla solitudine condivisa dei legami familiari. È qui che la serie mostra i suoi artigli migliori: non nel paradosso fantascientifico fine a sé stesso, ma nel modo in cui il paradosso rivela le verità umane più elementari.
La scrittura è ancora una volta raffinata, pungente, talvolta crudele. Le battute si incastrano tra citazioni pop, calembour iper-tecnologici e intuizioni narrative degne del miglior teatro dell’assurdo. Ogni episodio è un viaggio in una possibilità della mente: The Last Temptation of Jerry, ad esempio, trasforma un uomo mediocre in messia per caso, e in quella croce pasquale intergalattica c’è tutta la disperata ironia di un’esistenza che cerca un senso nei posti sbagliati.
L’episodio più alto e una produzione forte

Ma è con The Rick, the Mort & the Ugly che la stagione tocca il sublime: la resurrezione del Citadel arc, apparentemente chiuso, si carica di nuove risonanze. Cardoni e Belden danno prova di camaleontismo vocale, giocano con i personaggi come attori shakespeariani alle prese con maschere di sé stessi. È teatro nel teatro, Rick nel Rick, un gioco di specchi vertiginoso che non si accontenta di divertire – vuole stupire, e ci riesce.
Dan Harmon e Scott Marder non tradiscono la loro poetica: il caos è ancora al centro, ma ora è più lucido, più ferito, più adulto. Rick and Morty non cerca più solo la battuta che uccide: cerca la battuta che rivela, che fa male, che ti lascia a pensare davanti allo schermo spento.
Rick and Morty – stagione 8: valutazione e conclusione
L’ottava stagione di Rick and Morty è un atto di fede nel potere della narrazione animata come forma di espressione totale. È filosofia travestita da farsa, tragedia vestita da meme. È, in fondo, uno dei pochi luoghi in cui l’intelligenza e il nonsense riescono a ballare insieme senza inciampare. E se Rick cambia davvero – o finge di farlo – poco importa: quello che conta è che continuiamo a seguirlo. Nonostante tutto. Malgrado tutto.
E forse è proprio qui che Rick and Morty trova la sua maturità definitiva: nell’accettazione dell’irrisolvibile, nella consapevolezza che crescere non significa diventare più semplici, ma imparare a contenere le contraddizioni. La serie non chiede più di essere capita: chiede di essere ascoltata, attraversata, come un poema grottesco recitato nel vuoto interstellare. Le sue voci, rinate, non sono una sostituzione: sono una reincarnazione. E se la forma cambia, il contenuto pulsa con la stessa, rinnovata furia.
C’è un’eleganza tragica in questa ottava stagione, come se il disegno assurdo dell’universo stesse finalmente imparando a disegnarsi da solo, a matita, con errori visibili e tratti più incerti. Ma non per questo meno intensi. Rick and Morty è ancora una volta lo specchio di un tempo che non sa più ridere senza piangere. Ed è in quel riflesso che ci riconosciamo. Distorti. Smarriti. Umoristicamente, splendidamente umani.