Takara – La notte che ho nuotato: recensione del film giapponese

Recensione di Takara – La notte che ho nuotato, una storia che si eleva a un’ode alla curiosità dell’infanzia. Dal 23 maggio al cinema.

Inizia tutto con una finestra che lascia trasparire una fitta neve che, candida, scende lieve. L’incipit di Takara – La Notte che ho nuotato, diretto nel 2017 dal duo cosmopolita formato da Damien Manivel e Kohei Igarash, è inghiottito nell’oscurità che determina le ultime ore notturne, pochi attimi prima dell’avvento del giorno.

Racconto sincero che – per cercare di raggiungere e, di conseguenza, restituire allo spettatore una tanto agognata autenticità – si libera di tutti gli elementi superflui e artificiali del cosiddetto cinema di finzione, il film franco-nipponico osserva e registra il percorso di scoperta che, portato avanti dal piccolo Takara, si snoda per un’intera giornata attraverso la candida bellezza del paesaggio nevoso del Giappone.

Takara – La Notte che ho nuotato: il mondo visto attraverso gli occhi di un bambino

Takara – La notte che ho nuotato, Cinematographe.it

Ogni mattina, poco prima che sorga l’alba, un padre di famiglia si sveglia e fuma una sigaretta, prima di abbandonare la casa, prima di dirigersi verso il luogo di lavoro. Fuori, lontano dal calore del suo nido, la neve imbianca le fredde montagne di Aomori. Svegliato dal fragore dell’automobile che si accende, il piccolo Takara apre gli occhi: adesso, in casa, è l’unico a essere sveglio. Sin dalle prime inquadrature, Takara – La Notte che ho nuotato si presenta come il veritiero ritratto della semplice quotidianità di un bambino, trascorsa a mangiare ciò che si riesce a trovare in cucina, a giocare con ciò che è sparpagliato nella propria camera da letto e a cercare di svegliare una madre ancora troppo stanca per dar fine al proprio sonno.

Giunge la mattina. Seppur assonnato, Takara è costretto a raggiungere la scuola. I suoi piccoli piedi si muovono rapidi sulla distesa bianca che copre le strade della cittadina. Ed è proprio lei a distrarlo: colpito dalla neve, il bimbo si allontana, desideroso di raggiungere il papà. È in questo modo che Manivel e Igarashi danno inizio alla storia che vogliono raccontare, una storia che si eleva a un’ode alla curiosità dell’infanzia, un’età alla perennemente ricerca di quelle inedite bellezze che l’apparentemente banale vita quotidiana è, in realtà, capace di offrire. Mostrando, senza spiegare, Takara – La Notte che ho nuotato sussurra al pubblico quale sia l’importanza dell’esistenza, senza urlare e senza stonare nemmeno una volta.

Takara – La Notte che ho nuotato: un cinema minimalista fatto di verità e dolcezza

Takara – La notte che ho nuotato, Cinematographe.it

I rumori lievi non disturbano il silenzio. Non si pronuncia nessuna parola, non si sussurra nessun suono. La mancanza del fastidioso frastuono cittadino, così come il ritmo lento con cui viene ricostruita e scandita la quotidianità silenziosa del piccolo protagonista, contribuisce a ricreare un clima sognante, il quale – oltre a richiamare metaforicamente quella che è la favola del periodo infantile – elimina totalmente gli elementi artificiali del cosiddetto cinema di finzione.

Certo, non si tratta di un’operazione artistica inedita e rivoluzionaria: è soltanto uno dei tanti esemplari di quello che potrebbe essere definito minimalismo cinematografico di matrice asiatica. Eppure l’introspettività dolce e, al contempo, malinconica che lo caratterizza riesce a dar vita a una testimonianza sincera e trasparente, sempre tesa alla traduzione della realtà e della verità.

Non sarebbe difficile descrivere in modo conciso Takara – La notte che ho nuotato, anzi. Risulterebbe necessario l’utilizzo di una sola e semplice etichetta: si potrebbe definire, infatti, come un commovente inno alla vita. Con la sua trama quasi inesistente, il lungometraggio è desideroso di immergere lo spettatore in quello che si delinea come un viaggio nella semplicità e nella purezza che caratterizzano lo sguardo di ogni bambino, una mente priva di ogni convenzione e di ogni malizia: non c’è spazio per alcuna conseguenza, per alcuna punizione, per alcuna paura. Esiste solamente il presente in questa esistenza fatta di istanti, dove il “poi” sembra essere lontano, quasi incerto.

A circa due anni dalla sua anteprima ufficiale, avvenuta durante la 74esima Mostra del Cinema di Venezia, in cui era stato presentato nella sezione “Orizzonti”, il lungometraggio franco-nipponico arriva finalmente nelle sale italiane, grazie a Tycoon, a partire dal 23 maggio.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 4
Emozione - 4

3.9