Venezia 79 – Skin Deep: recensione del film di Alex Schaad

Skin Deep è il primo lungometraggio del tedesco Alex Schaad, presentato all’interno della Settimana della Critica a Venezia. Una storia di scambismi identitari.

In programmazione all’interno della Settimana Internazionale della Critica il 4 settembre 2022 Skeep Deep è il primo lungometraggio del tedesco Alex Schaad (1990), una fantascienza esistenzialista che si riallaccia alla tradizione delle Baccanti di Euripide, di grande fortuna nel Novecento europeo e americano, allestisce – più teatralmente che cinematograficamente – una metempsicosi in vita dalle conseguenze stordenti. 

Tristan e Leyla sono una giovane coppia in cui non manca la tenerezza. Che qualcosa tra loro, però, non funziona si scopre presto. Entrambi comunicano, con i gesti e la vocalità spenta, un senso di fiacchezza, disaffezione alla vita. Arrivati in un’inquietante località di villeggiatura per sottoporsi a un esperimento ripara-relazione, s’imbattono subito in Stella, il cui nome femminile poco si adatta all’aspetto che ha di anziano signore, sofferente per un lutto subito da poco, la morte di Papa (“Papà”), che nella prima scena troviamo stramazzante dentro un letto, bizzarramente all’interno del corpo di una giovane donna. 

Deep Skin: la coraggiosa opera prima di Alex Schaad, uno straniato sci-fi esistenzialista

Skin deep recensione cinematographe.it
Alex Schaad (1990) nasce in Kazakhstan e si trasferisce in Germania con la sua famiglia nel 1993. Skin Deep è il suo primo lungometraggio.

Nell’isola in cui sono approdati, si tiene, infatti, ogni estate una lotteria: chi accetta di giocare, dovrà dismettere la propria identità e accettare, nell’impossibilità di barattare il corpo, di assumere l’anima, da intendersi in senso serratamente junghiano di contatto non mediato con la sorgente inconscia, di qualcun altro, al di là del genere o dello steccato anagrafico.

Tristan e Leyla accettano di sottoporsi allo scambismo identitario: lui, musicista dal temperamento delicato, scambia, in un primo momento, identità con il fanfarone Mo. Il patto è sancito da uno scambio di oggetti totemici, da un’abluzione purificante ed è soggetto alla clausola di revoca immediata, qualora i contraenti decidano che ne hanno abbastanza di essere l’altro.

Leyla segue a ruota il compagno e diventa Fabienne, moglie di Mo, che a sua volta diventa Leyla, ma il gioco degli scambi identitari non si ferma alla doppia coppia nelle sue diverse combinazioni (etero e omosessuali), allargandosi anche a Roman, ex amante con problemi di dipendenza – da alcol e da persone – di Papa, poi amato da Tristan come Leyla e non in qualità di sé stesso. 

Skin Deep, un’indagine in forma di teatro su che cosa significhi essere sé

Ma quando la mimesi si fa così perfetta e la porosità dei confini rende difficile riabilitare i precedenti sedimenti identitari chi può dire più che cos’è un ? Alla domanda “chi siamo ora?”, uno dei personaggi risponde: “felici”. Eppure non è così semplice. Se l’identità – l’insieme delle identificazioni che nell’identità convergono – limita e opprime, ostacolando l’accesso all’inconscio e alle sue possibilità di una felicità in parte liberamente pulsionale, è anche vero che si delinea come male inevitabile che non sempre ostacola, ma talvolta preserva la vita dal suo connaturato tracimare: non è un caso che, in una delle scene finali, Leyla fatichi a riemergere dall’acqua, sprofondata in un inconscio che è tutto godimento senza più legge, senza più nome

Il titolo del film suggerisce un’implicita scomposizione, stabilita in termini binari: c’è una pelle superficiale (deep-skin significa “superficie”, ma l’originale Aus meiner Haut, “fuori dalla mia pelle” è meno fuorviante) e una profonda, e, del resto, l’intera drammaturgia si sorregge sulla dicotomia corpo-psiche e sulla polarizzazione, più che sul continuum, tra maschile e femminile, vecchio e giovane, estroversione e introversione.

Il discorso condotto sulla scena dall’esordiente Schaad appare, quindi, più novecentesco che contemporaneo proprio perché, sebbene parta dalla buona intuizione di quanto l’identità quale costruzione rigida impali al narcisismo e all’impossibilità di uscire da sé e di amare l’altro (l’altro in sé; l’altro fuori da sé), nella sostanza, poi, ricade in quella stessa rigidità che le identità presuppongono, facendone un monolite che può essere scambiato in blocco anziché una dimensione più screziata, problematica in quanto per sua natura fluida, resistente alle scansioni, al puntellamento rappresentato da ogni processo identificatorio, reversibile e no. 

Skin Deep: un film che tradisce la Scuola

Skin deep recensione cinematographe.it

Schaad non rifugge di certo la problematizzazione né l’ammaestramento estetico-narrativo dell’ambiguo,  e il suo è un film che ci appare comunque meritoriamente coraggioso, ma non avrebbe dovuto scegliere, come ci sembra fare, la strada della teatralizzazione, ricusando l’occasione, che il cinema per antonomasia offre, di movimentare il conflitto, di sfogliarlo nella sua continua motilità e produzione di altro rispetto a quello che già c’è e si è appreso, nell’infinita moltiplicazione dei punti di vista e delle verità possibili. Inoltre, se a tratti, grazie soprattutto alla qualità delle prove attoriali, il film riesce a evocare lo straniamento, perlopiù procede inoffensivo, laddove è chiaro che l’intenzione del regista è di convocare il disturbante.

Skin Deep non riesce a perseguire quanto si prefigge per un eccesso di scolasticità: tradisce la sua genesi accademica nel modo in cui affronta le tematiche ‘giuste’ – à la page; contemporaneiste – con la stessa (buona) padronanza tecnica che si confonde nell’impersonalità di chi è chiamato fare un saggio anziché ad avvicinare il suo strumento a ciò che, nella realtà psichica, è magmaticamente irriducibile: il complesso identitario. Da lì, la scorciatoia di concentrarsi sulle sue forme esterne, nei loro diversi puntigli definitori.