Pietà: recensione del film di Kim Ki-duk

Film del coreano Kim Ki-Duk, vincitore del Leone d'oro alla 69ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, Pietà è un'opera in crescendo, che trova il suo apice in un finale potente, catartico e sconvolgente.

Il cinema orientale è uno dei più ricchi, variegati e importanti di tutto il panorama della Settima Arte. Ha delle radici storiche molto profonde e vanta nella sua schiera alcuni tra i cineasti più longevi e rappresentativi della storia del cinema: da sua maestà Akira Kurosawa fino all’enfant prodige del cinema coreano Park Chan-wook. La sua grande capacità di reinventarsi continuamente e di spaziare con naturalezza e sagacia tra il tradizionale e il moderno gli ha consentito di rimanere in primissimo piano fino all’epoca moderna.

Tra i principali esponenti degli ultimi anni troviamo il coreano Kim Ki-duk, cineasta pluripremiato, autore moderno, visionario, coraggioso e capace, mai banale e sempre con qualcosa da raccontare.

L’ultimo film che gli è valso un premio internazionale, per la precisione il Leone d’Oro alla 69° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è Pietà del 2012. La pellicola segna il prosieguo coerente del viaggio di una filmografia interessata a comunicare tramite la violenza, lo shock e la trasgressione, chiudendo la breve parentesi documentaristica.

Pietà: anche il diavolo ha un cuore

Kim Ki-duk film Pietà Cinematographe.it

Corea, 2012, Kang-do (Lee Gang-do), è un orfano cresciuto nei sobborghi di Seul, trasformatosi nel corso della sua vita in un sadico strozzino. Il suo compito è quello di recuperare i soldi dei commercianti indebitati per conto di un usuraio.

La sua attività prende spesso e volentieri la mano a Kang-do, il quale non disdegna mutilazioni e violenze psicologiche di ogni sorta nei confronti degli indebitati, per puro piacere personale, anche quando la situazione non lo richiederebbe. Non c’è supplica o situazione drammatica che possa far vacillare un’anima nera come la pece, più indicata al corpo di un demone che a quello di un ragazzo di trent’anni.

All’improvviso nella sua vita compare Chon (Jang Mi-seon), la quale si presenta come la madre che lo abbandonò quando era ancora in fasce, evento per il quale giustifica il figlio di tutte le sue azioni malvagie, addossandosene la totalità della colpa. La donna si dimostrerà disposta a tutto pur di dimostrare di essere quello che dice e recuperare il rapporto con il figlio ritrovato, sopportando la personalità violenta e crudele del ragazzo.

Piano piano il rapporto tra i due si farà sempre più stretto e Kang-do accetterà l’intrusa come sua madre. Da spietato strozzino, il ragazzo, si riscoprirà essere un bambino fragile e bisognoso di attenzioni, dipendente dalla figura materna e incapace di vivere senza.

Il dualismo soldi e violenza viene distrutto dall’arrivo di una figura sacra, la pietà. Essa provocherà un ribaltamento completo nella vita di Kang-do, per la prima volta dalla stessa parte delle persone che con tanto disprezzo e sadismo ha tormentato. Non avrebbe certamente immaginato che la sorte avrebbe riservato per lui un destino addirittura peggiore del loro.

Pietà: la vita, la morte, la vendetta e una curiosa ironia

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Il 18° lavoro del cineasta coreano è una sinfonia sproporzionata, composta da elementi eccessivi, estremi e a volte stereotipati. Archetipi di emozioni, sentimenti e rapporti portati all’elevazione massima, tirati talmente all’estremo che il passo successivo è l’esplosione e il loro stesso sgretolamento.

Eccessiva è la crudeltà di Kang-do verso i debitori, così come è eccessiva la loro stupidità e la loro rassegnazione di fronte alla figura titanica del giovane. Eccessiva è la capacità di sopportazione di Chon, così come lo diventa l’ingenuità del ragazzo dopo aver accettato che la donna è proprio sua madre. La sessualità è estrema in ogni sua rappresentazione: dalle erezioni notturne del giovane fino al rapporto incestuoso a cui costringe la madre. Eccessiva è la freddezza e la nudità del paesaggio, una baraccopoli così sterminata e morta da non sembrare appartenere alla Terra. Infine la vendetta, cervellotica, sadica e spietata oltre ogni immaginazione.

La pietà, chiaro riferimento alla Pietà di Michelangelo Buonarroti,  è estremizzata a sua volta, capace di riempire l’universo privato e quello comunitario e di inondare di una luce sacra ogni cosa su schermo, creando un percorso di redenzione cattolica per il protagonista, il quale, attraverso l’amore per la madre, cambia la propria vita e ripercorre i suoi passi da uomo nuovo. Il tutto però non può che concludersi con il massimo del sacrificio, la forma massima di espiazione dei peccati, perché la cosa più importante è l’opera e l’opera questo esige.

Kim Ki-duk racconta questa storia di vendetta con una regia brillante, sicura, eclettica, capace di non cadere mai in facili virtuosismi, ma rimanendo sempre sul pezzo, concentrata e attenta. Perfetta alleata dell’ironia che permea ogni azione su schermo, perché è opportuno disinnescare dei meccanismi mentali che fanno provare ribrezzo per le vicende narrate. Secondo il regista per denunciarle, per affrontarle e per superarle bisogna saperle vedere, bisogna saperne sorridere. L’artista coreano riesce a non prendere e a non prendersi sul serio, pur analizzando in maniera esaustiva ogni elemento che affronta.

Pietà costituisce probabilmente l’opera principe di Kim Ki-duk, nella quale il regista riesce ad esprimere il meglio della sua poetica e del suo stile sia registico, sia di scrittura.
Un’opera in crescendo, che trova il suo apice in un finale potente, catartico e sconvolgente. Una pellicola preziosa, spiazzante e mozzafiato.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 5

4