Killing Season: analisi del film e spiegazione del finale

Due soldati, due cacciatori: Killing Season mette a confronto due mostri sacri del cinema, Robert De Niro e John Travolta, rivelando le ferite e i lati oscuri che la guerra lascia nei sopravvissuti. Chi dei due avrà la meglio, nella caccia all'uomo fra i monti Appalachi?

Inedito in Italia, Killing Season è un duello fra due attori che hanno fatto la Storia del cinema contemporaneo, entrambi in cerca di nuovi stimoli dopo un periodo di appannamento. Da un lato Robert De Niro, imbottigliato dai 2000 in produzioni di dubbia qualità (Capodanno a New York, 2011; Lo stagista inaspettato, 2015; Nonno scatenato, 2016) e in trascurabili ruoli di contorno. Dall’altro John Travolta, che dopo i fasti di gioventù sta cercando di consolidare una seconda carriera da villain e supercattivo grazie a personaggi perfidi e senza scrupoli (Pelham 123, 2009; Le belve, 2012; Gotti, 2018).

La storia dell’ex soldato americano veterano di guerra che si ritira fra i boschi per dimenticare il passato e incontra apparentemente casualmente un turista europeo in difficoltà è – sulla carta – il perfetto terreno per la costruzione di due personaggi a tutto tondo, che si scontrano nel nome di un diverso senso della morale e di una differente filosofia di vita. Anche se, nella risoluzione dell’intreccio, i due avversari scopriranno di avere diversi punti in comune.

Killing Season: l’incipit rivelatore

Nelle primissime scene del film viene messo tutto subito in chiaro, grazie a delle didascalie introduttive che non lasciano adito a dubbi. L’evento scatenante da cui trae spunto la vicenda è la Guerra dei Balcani, e nello specifico il momento in cui (nel 1992) la Serbia invade la Bosnia. A fronte di un conflitto apparentemente senza fine, nel 1995 gli Usa e la Nato intervengono lanciando l’Operazione Forza Deliberata (Operation Deliberate Force). Vediamo un plotone d’esecuzione, una lunga schiera di cadaveri, e l’inconfondibile sguardo di John Travolta/Emil Kovac che osserva il suo boia Robert De Niro/Benjamin Ford prima che quest’ultimo gli spari alla nuca. Kovac sopravvive, e ai giorni nostri ottiene un passaporto per compiere finalmente la sua vendetta, mettendosi sulle tracce di chi era convinto di averlo eliminato.

Per contro, Ford trascorre il suo pensionamento in una sorta di eremitaggio volontario, in una baita sperduta fra i monti Appalachi. La sua routine prevede lo sviluppo delle foto fatte nei boschi, la lettura di un libro davanti al caminetto, il taglio della legna e la ginnastica mattutina. Ci sarebbero un figlio adulto e un nipotino appena nato, ma Ford li evita accuratamente. Nulla può scalfire il suo auto-esilio, fino a quando un apparentemente innocuo turista entra nella sua vita, conquistando la sua fiducia grazie ad una bottiglia di liquore. Noi spettatori sappiamo quello che Ford ancora non sa: Kovac è lì con uno scopo preciso, ovvero sbarazzarsi dell’americano che 20 anni prima aveva quasi posto fine alla sua esistenza.

Killing Season: a caccia di una confessione

Killing season Cinematographe.itIl mattino seguente, mentre il duo è sulle tracce di un cervo nascosto nel fitto della vegetazione, l’ex soldato Kovac si svela: lui e Ford erano entrambi a Menasha durante la guerra, e ha inizio così la caccia. Non più al cervo, ma all’uomo. Tuttavia il militare serbo non vuole uccidere l’americano, o perlomeno non solo: la sua pretesa infatti è quella di una confessione, che ponga fine alla fuga dalla realtà di Ford. Nei ripetuti scontri corpo a corpo che si susseguono, preda e predatore si scambiano continuamente di ruolo, a testimonianza di come nella battaglia i contorni della vittima e del carnefice siano continuamente sfumati, e di come le guerre distruggano essenzialmente l’umanità presente in ognuno al di là degli ideali e della bandiere.

La lotta si fa anche religiosa: Ford non è (più) credente, a causa di ciò che ha visto durante la sua carriera militare; Kovac invece lo è, perché la tremenda sofferenza che ha osservato fra le popolazioni devastate è il segnale di qualcosa che da solo l’uomo non sarebbe in grado di concepire. I peccati sono parte di noi, e Kovac non vuole essere perdonato quanto essere assolto per ciò che ha commesso. Nell’ultimo scontro all’interno di un capanno abbandonato il serbo confessa le sue colpe e chiede di fare lo stesso al veterano statunitense, che tuttavia tace e sconfigge definitivamente a sorpresa il nemico.

Killing Season: la spiegazione del finale

Killing season Cinematographe.itDi fronte al panorama mozzafiato degli Appalachi, finalmente Ford vuota il sacco: nell’ottobre del 1995 la sua unità doveva liberare i musulmani bosniaci dai campi di concentramento. Una volta arrivato sul luogo però il gruppo vede dei vagoni zeppi di cadaveri sui binari. Di lì a poco i paramilitari serbi si arrenderanno, ma i soldati americani, invece di consegnarli alle autorità, li faranno salire su una collina uccidendoli poi uno a uno, come punizione per le torture perpetrate nei confronti dei civili. Nella convinzione che l’eliminazione dei peggiori avrebbe cancellato l’orrendo ricordo, Ford esita ma alla fine spara. Ma così facendo in realtà non si libera di un peso, diventando al contrario quello che ha sempre odiato, ovvero un assassino senza scrupoli. Kovac e Ford sono entrambi killer, sono uguali, hanno vissuto il medesimo terrore e sono ossessionati dai medesimi incubi. La vera catarsi è la liberazione, e così il reduce americano lascia andare il suo prigioniero.

Entrambi torneranno a casa, ma mentre Kovac farà ritorno a Belgrado nel locale in cui lo avevamo incontrato ad inizio film riappacificato con se stesso e coi suoi demoni, Ford non tornerà al suo rifugio solitario. Sconfiggere i suoi fantasmi per lui significa finalmente avere il coraggio di archiviare il passato e tornare da suo figlio e da suo nipote, riallacciando i rapporti perduti con la sua famiglia – il suo presente e il suo futuro – e con gli affetti che ha sempre colpevolmente ignorato.