Il terzo occhio (The 3rd Eye): recensione del film Netflix

La nostra recensione de Il terzo occhio (Mata Batin il titolo originale, The 3rd Eye quello internazionale), horror indonesiano disponibile su Netflix

Il terzo occhio (Mata Batin il titolo originale, The 3rd Eye quello internazionale) è un film horror soprannaturale del 2017, scritto e diretto dall’indonesiano Rocky Soraya e interpretato da Jessica Mila, Denny Sumargo e Citra Prima. Dopo la distribuzione in patria e nei territori limitrofi, a partire dal 28 settembre 2018 Il terzo occhio è disponibile per tutti gli abbonati a Netflix.

In seguito alla morte dei genitori Alia (Jessica Mila) si trasferisce da Bangkok a Jakarta, dove va a vivere nella casa della sua infanzia, insieme alla sorella minore Abel (Bianca Hello).  La piccola Abel sostiene di riuscire a vedere le persone morte accanto a lei grazie al cosiddetto terzo occhio che le è stato aperto tempo addietro, ovvero una porta sensoriale sulle presenze soprannaturali che ci circondano. Per convincere la titubante Alia di ciò che le sta accadendo, Abel le chiede di incontrare la sensitiva Windu (Citra Prima), che effettua l’apertura del terzo occhio della sorella maggiore. Alia comincia così a essere coinvolta nelle stesse esperienze della sorella, e si trova così costretta a fare i conti con delle oscure presenze intorno a lei.

Il terzo occhio: orrore e paranormale in una mediocre rimasticatura dei capisaldi occidentali del genere
Il terzo occhio

Fin dai primi minuti è chiaro che con Il terzo occhio ci troviamo davanti a un pasticcio fatto di rimasticature di situazioni tipiche dell’horror e del paranormale, privo di una struttura narrativa adeguata a sostenere il racconto. Fulcro del racconto è proprio il terzo occhio del titolo, una sorta di ulteriore capacità di visione che secondo alcune tradizioni esoteriche permetterebbe di entrare in contatto con le entità e i fenomeni paranormali che ci circondano, solitamente nascosti ai nostri sensi. Su questa intelaiatura già particolarmente esile, Rocky Soraya costruisce una poco ispirata storia di sorellanza, che non ha né un acceso conflitto né uno struggente affetto da raccontare, facendo così perdere ben presto l’interesse nei confronti dei personaggi.

Il terzo occhio prende così la strada delle emozioni facili, cercando atmosfere tese e sinistre attraverso le presenze viste e affrontate dalle sorelle Alia e Abel. Rocky Soraya non è però James Wan, e il suo tentativo di inquietare attraverso i classici meccanismi di ombre, scricchioli e jump scare viene ben presto affondato da una regia scolastica e confusionaria e da una fotografia che non infonde mai l’atmosfera necessaria ad addentrarci nella storia. Casomai ci perdessimo qualche passaggio, è inoltre il macchiettistico personaggio della sensitiva a spiegarci a intervalli regolari cosa sta succedendo e perché, stroncando così sul nascere qualsiasi residuo di mistero.

Il terzo occhio: un innocuo prodotto di genereIl terzo occhio

Nonostante l’apprezzabile impegno delle protagoniste Jessica Mila e Bianca Hello, che cercano senza successo di dare profondità e intimità a un rapporto fra sorelle scritto senza il minimo tentativo di introspezione, l’aspetto più interessante del film diventa la caccia ai riferimenti più o meno nascosti ai capisaldi occidentali del genere, che sono messi in scena con un’ingenuità e una purezza tali da rendere difficile persino infastidirsi. Da Il sesto senso (manca solo la celeberrima frase Vedo la gente morta) alla tradizione di case infestate, di cui l’universo di The Conjuring è solo l’ultimo esponente, passando per l’immancabile possessione in stile L’esorcista e giungendo a un finale che strizza l’occhio a Ghost, a tratti sembra quasi di trovarsi di fronte a un saggio scolastico, privo della maturità e della statura cinematografica necessarie a rielaborare efficacemente i propri riferimenti.

L’indonesiano Il terzo occhio si rivela così un innocuo prodotto di genere, che non riesce mai né a spaventare né a stabilire la necessaria tensione. Paradossalmente, il maggiore pregio del film diventa però la sua disarmante schiettezza, che permette allo spettatore di seguire il film senza particolare sofferenza fino al finale (con il suo classico gancio per un sequel). Una pellicola che non ci sentiamo di consigliare, ma comunque più apprezzabile di molte delle produzioni con budget e potenzialità maggiori (ricordiamo per esempio The Open House) che Netflix ci ha recentemente proposto.

Regia - 2
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 1.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 2

2.1

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