Ghost Lab: recensione dell’horror thailandese Netflix

La recensione del fanta-horror ectoplasmatico made in Thailandia diretto Paween Purijitpanya. Dal 26 maggio su Netflix.

Credete nella vita dopo la morte? Credete nell’esistenza dei fantasmi? Avete mai avuto la dimostrazione che le cose in cui credete non fossero solo superstizioni? Buona creanza vuole che non si risponda a una domanda con un’altra domanda, ma nel caso di quelle rivolte allo spettatore dalla voce narrante presente nel prologo di Ghost Lab si potrebbe fare uno strappo alla regola, vista la portata e il peso specifico dei quesiti in questione. Intorno ad essi Paween Purijitpanya ha costruito il racconto della sua ultima fatica dietro la macchina da presa, rilasciata su Netflix il 26 maggio.

Ghost Lab è il primo Thai movie prodotto interamente in Dolby Vision

Ghost Lab cinematographe.it

Dal titolo e dalle domande rivolte al pubblico nel suddetto incipit è facile intuire quale sia la materia prima e il genere dai quali si è andati ad attingere, vale a dire l’horror dalle venature sovrannaturali. Tinte, queste, che il cineasta thailandese ha già avuto modo di utilizzare sin dal suo esordio con Body e negli episodi da lui diretti degli antologici 4bia e Phobia 2. Film con i quali tra l’altro l’autore non ha mai particolarmente entusiasmato le folle di appassionati e cultori del genere. Al di là di guizzi tecnici che ritroveremo centellinati nella timeline (vedi la sequenza dell’ascensore in caduta libera o il faccia a faccia che precede il finale), anche in questa occasione il risultato non riesce a colpire il bersaglio. L’estetica, lo stile e la qualità visiva di quello che è storicamente il primo Thai prodotto interamente in Dolby Vision non è in discussione, al contrario è la scialuppa di salvataggio alla quale ci si aggrappa per trovare un motivo di consolazione per giustificare una perdita di tempo.

Ghost Lab è una maionese impazzita di generi e registri che a malapena riescono a coesistere

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Tale è un film che arriva a sfiorare le due ore nonostante le reali esigenze narrative della storia e dei suoi personaggi non lo richiedano. Ciononostante la dilatazione avviene, gonfiando in maniera eccessiva il plot e le disavventure terrene e ultra-terrene dei protagonisti, due medici che, dopo un avvistamento tra i corridoi dell’ospedale in cui lavorano, fanno di tutto per provare scientificamente l’esistenza dei fantasmi, compreso passare ad altra vita. E la mente non può non tornare a dinamiche analoghe come quelle al centro di Linea mortale di Joel Schumacher, nel quale un gruppo di studenti di medicina sperimentano su se stessi la morte indotta chimicamente per dimostrare l’esistenza dell’aldilà. Analogie, queste, che non saranno le uniche, ma se ne conteranno a decine strada facendo con tanti film inscrivibili nel filone della ghost stoy e più in generale del sovrannaturale: da Il sesto senso a Ghost tanto per citarne qualcuno. Il ché trasforma Ghost Lab in una maionese impazzita di generi e registri che a malapena riescono a coesistere.

Un fanta-horror ectoplasmatico affetto da una gravissima crisi d’identità

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Sta dunque nella scrittura e nella sua saturazione il tallone d’Achille di questo fanta-horror affetto da una gravissima crisi d’identità, che non gli permette di trovare un punto d’incontro tra le intenzioni iniziali e la loro mancata messa in pratica. Il team di sceneggiatori capitanato dallo stesso Purijitpanya crea una staffetta nella quale i generi chiamati in causa si rincorrono a vicenda senza trovare mai dei veri punti di congiunzione in grado di amalgamare il tutto. Si parte così dal classico horror ectoplasmatico per poi tuffarsi in un fanta-thriller dalla linea mistery, passando persino per il dramma e il melò. Strade che però non si intersecano mai. I continui cambi di ritmo rendono le transizioni meno traumatiche, ma dopo una trentina di minuti lo spettatore ha già perso la bussola e con essa anche la pazienza. 

   

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 1.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 1.5

2.2

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