Cargo: recensione del film Netflix con Martin Freeman

Disponibile su Netflix dal 18 maggio, Cargo risulta difficile da concepire come un horror movie in piena regola.

Senza stare a scomodare George Romero o mettersi a fare una breve ma accurata storia del genere, ci basti dire che, negli ultimi tempi, gli horror movie non godevano esattamente di ottima vita. Dopo l’avvento in tv della serie The Walking Dead, abbiamo iniziato ad assistere a un timido ritorno di fiamma per un genere che sembrava aver ormai esaurito tutti i propri assi nella manica. Al numero di film che sono stati portati a termine in questi anni si deve perciò aggiungere una nuova pellicola australiana a firma di Yolanda Ramke e Ben Howling sbarcata ieri su Netflix, Cargo.

Sebbene possa lasciare gli spettatori giustamente confusi e con una pletora di domande cui non si può e forse non si vuole dare risposta, uno dei punti di forza della pellicola è il suo aprirsi in medias res. I primi casi di manifestazione del virus, i tentativi di debellarlo, la decimazione della popolazione, la messa a punto di qualche blanda misura preventiva sono tutte cose che non interessano ai due registi e che quindi vengono lasciate fuori dai confini del film. Quello su cui ci si vuole focalizzare è invece il racconto del disperato tentativo di un padre di mettere la propria figlia al sicuro in un mondo in cui è ormai difficile credere che un posto del genere possa ancora esistere.

Cargo: quando gli zombie sono solo un pretesto per un dramma famigliare

Cargo Cinematographe.it

Se a primo impatto ci troviamo di fronte a una famiglia che pare godersi serenamente una gita su un fiume, molto presto ci rendiamo conto che la situazione non è affatto quella che sembra. Muovendosi più col ritmo di un thriller che non di un horror vero e proprio, Cargo ci mette un po’ a ingranare e ad assestarsi su un binario sicuro anche se non eccessivamente esaltante. Quando Kay (Susie Porter) decide di avventurarsi su una nave abbandonata alla ricerca di un rasoio per il marito Andy (Martin Freeman), la donna viene morsa e scopriamo che in Australia è da tempo emergenza zombie. Ai cittadini viene infatti fornito un kit, dotato di braccialetto elettronico per il conto alla rovescia prima della trasformazione definitiva, e una pratica siringa da piantarsi nella tempia nel caso in cui togliersi la vita diventi un’opzione più appetibile dell’aggirarsi per l’outback australiano in cerca di carne umana nelle pause tra un sonnellino e l’altro con la testa ridicolmente ficcata sotto terra.

Riposini in posizioni scomode a parte, gli zombie di Cargo non hanno mai troppo tempo in scena, a meno che la trasformazione non riguardi i personaggi principali. Come si diceva, infatti, i due registi non sembrano tanto interessati alla rappresentazione dei non morti, quanto al legame affettivo padre/figlia in uno scenario post-apocalittico. Il fatto che Andy stesso venga morso a pochi minuti dall’inizio del film introduce sicuramente un elemento nuovo nella narrazione andando anche a spingere sul senso di urgenza della quest paterna di trovare una famiglia a cui affidare la piccola. Tale cerca però non riesce mai a fare breccia nel cuore dello spettatore, riproponendo sempre il solito schema di perdita della bambina seguito dal suo tempestivo ritrovamento.

Cargo tra tentativi di critica sociale e mancanza di identità

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In quanto ambientato in Australia, Cargo non dimentica la fetta di popolazione aborigena che popola quel territorio. Nel film però gli Aborigeni ci vengono presentati come profondamente contrapposti ai bianchi dove unico punto di contatto positivo è una scuola ormai in stato di abbandono in cui alcuni bambini aborigeni potevano studiare prima di tornare alle loro rispettive comunità. L’incontro/scontro tra le due diverse culture ed etnie finisce però per risultare solo un blando tentativo di critica sociale, presentando la questione in modo forse troppo superficiale e senza un’effettiva necessità ai fini della trama.

In conclusione, è difficile concepire Cargo come un horror movie in piena regola. Per esserlo, mancano tutti gli stilemi necessari e la sola presenza di un virus che trasformi gli esseri umani in zombie non è abbastanza, specie quando la minaccia più grande del film sembra provenire da un essere umano bianco perfettamente in salute. Al tempo stesso, è lampante il tentativo di costruire un film che vorrebbe toccare corde diverse ma a cui manca l’intimità e la profondità necessaria per scavare a fondo in quei temi che dovrebbero essere il vero cuore della pellicola.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 2

2.6

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