Joan Didion: perché avete bisogno di vedere il documentario Netflix sull’iconica scrittrice

Joan Didion non è stata solo una scrittrice di saggi e romanzi apprezzata per la qualità altissima della sua scrittura, ma anche l’icona di una sensibilità culturale di rara finezza. Ieri si è spenta a New York: un documentario Netflix ci permette di entrare nel suo mondo 'freddo', tra demoni privati e collettivi.

È morta il 24 dicembre 2021 a New York, qualche manciata di giorni dopo il suo ottantasettesimo compleanno, la scrittrice Joan Didion, nata e vissuta per la maggior parte della sua vita in California: vera e propria icona di uno stile (letterario ed estetico) squisitamente minimalista, con la sua penna ‘antisentimentale’ ha inciso sia le stranezze del continente americano, facendosi cronista della sue perversioni soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, sia gli intimi spaesamenti di un’io per forza di cose frammentario, esposto allo shock della perdita e dell’insignificanza.

Il primo racconto lo ha scritto a cinque anni in un taccuino regalatole dalla madre che voleva insegnarle a non lamentarsi ma a “buttare giù” i pensieri per esorcizzarne il carico angoscioso, ed era la storia di una donna che credeva di morire congelata in una notte artica e invece si ritrovava all’alba nel deserto del Sahara, dove sarebbe morta di caldo prima di mezzogiorno. Già da questa prova infantile, acerba e geniale, emerge l’inclinazione per l’estremo che avrebbe caratterizzato anche la sua scrittura adulta, la cifra inimitabile di una voce diretta, senza fronzoli, affilata ed elegante soprattutto quando si trattava di penetrare un soggetto difficile, di entrare in un recesso paludoso e scomodo della psiche.

Joan Didion – il centro non reggerà: il documentario che racconta Joan Didion e le sue inquietudini di sposa, madre, intellettuale tra le più importanti d’America

Joan Didion cinematographe.it

Joan Didion e il nipote Griffin Dunne, regista del documentario che ricostruisce la sua vita.

Griffin Dunne, nipote del marito scrittore John Gregory Dunne, da lei sposato senza esserne innamorata –“non so cosa significhi innamorarsi, non fa parte del mio mondo, ma mi piace stare in coppia e posso stare solo con un altro scrittore, nessun altro mi sopporterebbe” – poi amato moltissimo nonostante il suo temperamento irascibile e l’impossibilità congenita di entrambi di essere felici, nel 2017 le ha dedicato un documentario dal titolo Joan Didion – il centro non reggerà, ancora disponibile alla visione su Netflix: la scrittrice vi compare già minata nel corpo, da sempre esile e, nella vecchiaia, divenuto ancora più scarno. 

Zia e nipote ripercorrono insieme la vita della prima: la “tristezza pervasiva” del padre, che avrebbe poi scoperto chiamarsi depressione ma che da bambina pensava fosse normale; la passione per il cinema, che frequentava tre e quattro volte a settimana, e una promessa di un personaggio di John Wayne alla sua amata alla quale finisce per credere e di cui registra dolorosamente il mancato avverarsi; il lavoro ottenuto nella redazione di Vogue non appena ventenne, in una New York che allora le appariva esaltante e a cui presto, tuttavia, si disaffeziona (“È possibile stancarsi anche del posto più bello al mondo”), richiamata al mare affumicato della West Coast dalla nostalgia per quella che è sempre stata la sua casa. 

Joan Didion si confronta con la perdita: nei romanzi ne esorcizza la paura; nella vita la sperimenta e impara ad accoglierla (e sempre grazie alla scrittura)

Joan Didion cinematographe.it

Joan Didion con il marito, lo scrittore di origini irlandesi John Gregory Dunne (1932-2003), e la figlia Quintana Roo (1966-2005).

Nel suo primo scritto importante, un articolo giornalistico, si fa notare per la robustezza del suo pensiero, quest’ultimo tuttavia affidato a un linguaggio sottile come il suo corpo-simbolo: “Il carattere”, vi scrive, “cioè la disponibilità ad accettare la responsabilità per la propria vita, è la fonte da cui sgorga il rispetto di sé”.

Più tardi si avvicina al romanzo, affiancando alla scrittura saggistica quella narrativa: a questa ricorre soprattutto per elaborare le paure perché “i romanzi parlano anche delle cose che non sai affrontare”, tra cui la più temuta è la separazione: dal marito, dalla figlia Quintana Roo, adottata neonata e cresciuta con il senso di colpa di non riuscire a proteggerla (dagli incubi, dall’alcolismo, dal desiderio spaventoso di ricongiungersi alla madre biologica).

John e Quintana muoiono nel giro di un anno e mezzo: il primo, per infarto, nel dicembre 2003; la seconda, a seguito di una caduta e di uno stato comatoso, nell’agosto 2005. Scrivere L’anno del pensiero magico e Blue Nights, i due memoir con cui prova a mantenere il contatto con i suoi affetti e insieme a separarsene, divengono così i luoghi del congedo e del ritorno, benché provvisorio e ‘di compromesso’, alla vita: “Nessuno mi aveva detto cos’era la perdita: l’inesorabile successione di momenti in cui affrontiamo il vuoto e l’assenza stessa di significato. Ma per tornare a vivere dobbiamo separarci dai morti, tenerli così come sono: morti. Occorre che li lasciamo diventare una fotografia sul tavolo. Per una volta nella vita dobbiamo lasciarli andare”.   

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