Alejandro Amenábar: intervista al regista di Regression

Dopo sei anni dal suo ultimo film il regista Alejandro Amenábar torna dietro la macchina da presa con Regression, un thriller in bilico tra horror e psicologia che vede protagonisti attori del calibro di Ethan Hawke (Boyhood), nei panni dello scettico detective Bruce Kenner, ed Emma Watson nei panni dell’enigmatica e cinica Angela Gray. In attesa di presentarvi al nostra recensione in anteprima vi riportiamo di seguito le dichiarazioni di una delle personalità più stimate, sorprendenti e preparate della nuova generazione di registi spagnoli.

Intervista ad Alejandro Amenábar: non mi colpisce tanto la capacità di ingannare, quanto la volontà di credere

Alejandro Amenábar

È passato tanto tempo dal tuo primo film, Tesis, e adesso sei tornato al cinema con un thriller. Quando è iniziata nella tua testa l’avventura di Regression?

Sono sempre stato attirato, con fa ragazzo, dall’idea di fare un film. In particolare volevi fare un film sul diavolo, affrontare un argomento di questo genere. Quando Ho iniziato a fare delle ricerche mi sono annoiato e ho lasciato perdere, poi però ho cominciato nuovamente ad esplorare l’argomento quando ho saputo degli abusi legati al satanismo. Ecco allora che è uscito fuori non solo un film sul diavolo; a questo punto era diventato un horror psicologico. Mi interessava esplorare il labirinto della mente.

Nei tuoi film spesso non ti sei occupato solo della regia ma anche di altri aspetti come ad esempio la musica. In quale ruolo ti senti più a tuo agio?

In questo film come vedete non mi sono occupato per niente della musica. Mi sento a mio agio sul set, nel dirigere, lavorare con gli altri.. Lì provo soddisfazione. So che per alcuni registi girare un film è stressante ma per me no, mi aiuta a tirare fuori il meglio della mia personalità.

Credo che in questa pellicola hai fatto tua la citazione messa in bocca al detective, “Il diavolo non esiste, esistono solo cattive persone”. Inoltre il prete sembra essere una figura enigmatica. È così?

Qualche giorno fa ho letto, o forse ascoltato, una cosa detta da Guillermo Del Toro, cioè che ci sono alcuni film in cui il diavolo viene dall’esterno e altri in cui si trova dentro di noi. Bene, a quest’ultima categoria appartiene Regression. Ho fatto mia la battuta di Hawke e credo che esistano ovunque buoni e cattivi.
Parlando del prete ho visto che in America c’è una forte presenza della Chiesa Evangelica ma non volevo enfatizzare questo aspetto. Volevo far notare come la scienza e la religione collaborano per risolvere il caso ma tutti commettono degli errori. Non volevo però enfatizzare la figura del prete. Per me è molto importante l’aspetto psicologico.

Nel film si nota la presenza di un’isteria collettiva che ci riporta ai temi della persecuzione e della caccia alle streghe – ad esempio si va subito con la mente a Le streghe di Salem. 

Non abbiamo preso questo film come riferimento ma si tratta di una caccia alle streghe che ha svolto luogo in America negli anni 80/90. È una cosa di cui ha parlato Freud. È una cosa di cui anche i media hanno parlato e hanno enfatizza

Qual è la parte più affascinante del film?

Ho imparato quanto possano essere fragili i ricordi. Si dà per scontato che un cervello sia come un pc, ma si sa che i ricordi vengono forgiati da desideri e paure. Mentre scrivevo la colonna sonora del film ho fatto riferimento al film Freud, i temi trattati nella mia opera sono molto simili.

In Regression le immagini del fienile sono molto vivide. Come hai fatto a ricostruirle in maniera così dettagliata? E che ci dici sul particolare del cappello indossato da David Dencik?

Mi piace giocare con i cliché e credo che le immagini si alimentano da quel che vediamo nei film e, viceversa, nei film vediamo quello che abbiamo già dentro. Sia io che il direttore della fotografia volevano creare un’atmosfera cupa ma dove sono state girate le scene splende il sole come a Roma e a Madrid, quindi è stato difficile. Per quello che riguarda il cappello indossato da David Dencik la costumista aveva suggerito di farglielo indossare quando entra nel commissariato, per poi farglielo togliere e far scoprire che è calvo.

Spesso nei tuoi film il protagonista o la protagonista si sbagliano. Perché questa scelta?

Credo che tutti noi dobbiamo considerare l’esistenza degli errori. Tutti sbagliamo e poi dagli errori impariamo. Ho sempre odiato le equazioni matematiche, quelle in cui provi e riprovi e non ti esce mai la giusta soluzione, poi però torni indietro e ti rendi conto che bastava sistemare una cosa all’inizio. Credo che questa sia una storia di errori.
Per quello che mi riguarda, quando ho realizzato Tesis mi interessava che la troupe mi rispettasse quindi cercavo di avere fiducia in me stesso, adesso invece preferisco non lavorare in comodità ma mi piace quando qualcuno mi presenta delle sfide. Mi piace sapere che potrei sbagliarmi!

Nel film si parla di paura e pericolo, c’è una relazione anche col la situazione attuale?

Certo il pericolo è reale perché stiamo parlando dell’Isis. Quando sono andato a presentare il mio film a Parigi un giornalista mi ha chiesto cosa mi facesse paura… gli ho risposto che mi fa paura la volontà degli esseri umani di essere così crudeli.

Regression sembra per certi versi simile a uno di quei film che giravano in passato a Hollywood. Mi chiedo solo perché ci hai messo così tanto per regalarci un’altra pellicola?

Mi fate notare voi che sono passati 6 anni dall’ultimo film ma non me ne sono reso conto anche perché da un po’ avevo intenzione di fare un film sul diavolo.
Quando studiavo all’università pensavo che avrei girato la qualsiasi cosa pur di guadagnare invece poi ho capito che quello che faccio esprime ciò che voglio dire. Non mi sono ispirato ai film vecchi anche perché altrimenti non ci sarebbe stata la musica, forse più a film come L’Esorcista o quelli che parlano dell’abuso di minori. Negli anni ’80 la chiesa parlava molto del diavolo, mentre oggi si è concentrata sul tema di una seconda venuta di Cristo.

Come hai delineato il genere di questo film, che sta ai confini dell’horror?

Quando ho incontrato Ethan Hawke mi ha detto che aveva già fatto due film horror nella sua carriera… Da ragazzino mi spaventavo facilmente ma allo stesso tempo mi faceva piacere essere spaventato, nel film ovviamente. Noi disarmiamo la paura in questo modo. Non mi piace chiudere le porte ma essere aperto alla fantasia. Mi sono accorto che negli ultimi film parlo sempre di cose in bilico tra il crederci e il non crederci. Un’altra cosa che mi colpisce molto non è la capacità di ingannare ma la volontà di credere.

Ha scritto il personaggio del detective Bruce Kenner avendo già in mente Ethan Hawke? 

A dire il vero no, però quando ho visto al sua trilogia ho notato che aveva lo spirito giusto per girare il film. Poi lui ha accettato subito. Non aveva capito cosa volessi dire attraverso il suo personaggio e quindi gli ho detto di fare un personaggio minimalista. Allora ha detto: “il mio personaggio è uno che dorme sempre!” e quando gli ho risposto che non era esattamente così lui mi ha detto “lasciami fare”. Devo inoltre dire che ho preso spunto dalla Bibbia satanica… mi piace giocare con le immagini, i luoghi comuni…

Il film si chiude con l’immagine dell’edificio del che dà sul mare. È come se si volesse guardare finalmente la realtà delle cose?

Mi piaceva l’idea di avere un penitenziario con davanti il mare, che poi questo richiama anche il finale di un altro mio film, Mare dentro.