Quentin Tarantino a Roma FF16: “Non ho mai creato un mondo in cui vorrei abitare”

Quentin Tarantino è l'ospite d'onore della sedicesima edizione della Festa del Cinema. Il regista, due volte Premio Oscar, è atterrato nella Capitale per ritirare il Premio alla Carriera.

L’aura di Quentin lo precede, la folla lo acclama composta, ma a gran voce. È pur sempre una conferenza stampa. Il Roma FF16 accoglie Quentin Tarantino come si accolgono i divi, con mestiere, umiltà e sorpresa, quell’impeto vertiginoso che parte dallo stomaco e quasi inibisce la parola di fronte alla storia del cinema, comodamente seduta su una poltrona in velluto. Niente orpelli – se non nella voce – per il maestro del pulp e del sangue, pitturato sulla carne dei suoi personaggi in pieno stile Pollock, che ospite a Roma è pronto a ritirare il Premio alla Carriera. La camicia a righe verticali probabilmente diventerà un must have nelle collezioni primavera-estate 2022, così come lo è stata quella giallo ocra di Cliff Booth (il Brad Pitt di Once Upon a Time…In Hollywood), che vediamo indossare ad un ragazzo visibilmente emozionato in prima fila, proprio di fronte a Quentin. Nella norma consueta, intervistare qualcuno significa tratteggiarne le peculiarità essenziali a definirne una porzione, inedita e sconosciuta, da confezionare e consegnare al pubblico più fedele. Nel caso di Quentin, festoso, allegro, lucidissimo e preparato oltre ogni misura umana, fargli una domanda significa ipotecare il successo della risposta. Sì, perché è capace di farti ripetere la domanda cinque volte, chiedendoti di formularla meglio e di essere “meno pesante”, altrimenti c’è il rischio che gli cada il microfono per il dolore al braccio.

Quentin Tarantino al RomaFF16: la nostra intervista al regista di C’era una volta a… Hollywood

quentin tarantino - c'era una volta a... hollywood, cinematographe.it

Dal suo ultimo film del 2019, Once Upon a Time…In Hollywood, ha tratto un libro omonimo pubblicato nel 2021. Perché ha scelto di approfondirne il contenuto attraverso un romanzo e non un secondo film?

Circa tre anni fa ho iniziato a pensarci e mi sono detto: ‘Però, è un genere divertente’. Così ho letto libri già letti e altri che non ero mai riuscito a leggere e ho realizzato che era una gran figata. Questo si ricollega al discorso che faccio sull’arte alta e bassa. La mia idea era di scrivere un romanzo basato su Reservoir Dogs, Le iene poteva rientrare molto bene sugli scaffali dei libri sul crimine. Poi mi son detto ‘Ma che cazzo sto facendo’ è chiaro che il romanzo dovesse riprendere C’era una volta… a Hollywood. Avevo moltissimo materiale, non parlo di scene girate e non montate, ma della ricerca sui personaggi per scoprire quei tratti che poi non avrei incluso nel film: la carriera di Rick, il passato di Cliff, il rapporto di Sharon con Jay Sebring. In fondo Once upon a time…in Hollywood era la scelta giusta.”

I suoi film hanno fatto la storia del cinema anche per il suo approccio visionario. Sente che ora la sua libertà sia venuta un po’ meno?

“Credo che ora sia indubbiamente più difficile, ma non è impossibile. Bisogna volerlo fare e credere nei propri principi senza preoccuparsi solo del giudizio della gente. Non bisogna riflettere troppo. Quando ho fatto Pulp Fiction abbiamo ricevuto grande attenzione positiva della stampa ma inevitabilmente c’è stato un risvolto della medaglia. Molti critici hanno giudicato il film duramente, alcuni lo definivano un film divertente ma con personaggi tutto sommato non speciali. Sono usciti pezzi complessi di figure diverse. Mi sono detto ‘Sai che c’è, io ho fatto un film divertente sui gangsters, che problema hai?’ Quindici anni dopo ho riletto la rivista su cui era stato pubblicato. Non bisogna essere sensibili, né farsi prendere troppo da queste cose. Se il film è un argomento di conversazione, esprime lo spirito del tempo, ed è qualcosa che lascia segno, per quanto le critiche non siano lusinghiere, è qualcosa di cui vale la pena parlare. Pulp fiction è stato oggetto di grandi discussioni, questo vuol dire animare una conversazione. Per me è stato un lavoro vitale che è stato apprezzato. Bisogna avere la capacità per accettare il fatto che alle persone potrebbe non piacere il tuo film. Questo fa parte del dibattito. Voglio parlare di una delle conseguenze di Pulp Fiction: oggi ci troviamo in un tempo repressivo, ma gli anni ’80 lo erano altrettanto. La permissività degli anni ’90 deve qualcosa a Pulp Fiction.

Dopo la pandemia da Covid19, credi che il cinema in sala sia morto?

“Staremo a vedere, è quasi impossibile rispondere a questa domanda. Ho una sala cinematografica che si occupa di revival, la New Beverly. Dopo la pandemia abbiamo avuto un’affluenza incredibile, da sala piena. C’era la voglia di tornare al cinema, che no, non è morto dato che ho appena acquistato un’altra sala. Forse questo si riferisce ad un livello di nicchia, un po’ boutique. Ma io so una cosa, so che sono fortunato per la realizzazione di Once Upon a Time…In Hollywood. È un po’ come un uccello che riesce ad entrare in una finestra secondi prima che questa si chiuda, scoprendo che qualche penna della coda è rimasta incastrata. Potrebbe anche esserci anche un Kill Bill 3. Come dice lei. Chi lo sa.”

Riscrivere la storia è consolatorio? Com’è cambiata la sua vita e le sue priorità diventando padre?

“Ho riscritto la storia mentre scrivevo la sceneggiatura, e quando ho iniziato a scrivere non avevo intenzione di fare questo. Almeno all’inizio non è stato così. Mi sono intrappolato da solo e ho deciso di uccidere Hitler. Mi sembrava una buona idea all’epoca. Di questa trilogia qualcuno una volta mi ha detto durante un’intervista ‘Lei usa il finale che ha usato in Bastardi senza Gloria anche in Once Upon a Time…In Hollywood, secondo lei è giusto?’ Beh, se lo faccio io certamente, è il mio finale, l’ho inventata io questa roba, non mi potete fregare. Per quanto riguarda l’essere diventato padre le mie priorità sono un po’ cambiate, mio figlio è nato con le giuste tempistiche, verso la fine della mia carriera. Tutte le mie priorità sono cambiate significativamente.”

Parliamo del processo creativo alla base del film. Qual è il rapporto tra la qualità estetica e narrativa e da cosa parte, come primo elemento.

“Credo di non averci mai pensato in questi termini. Quando scrivo non penso mai il film, ma alla pagina sulla quale sto scrivendo. Io, la carta, la penna, il tavolo. A contare è la qualità narrativa, i personaggi, scoprire chi sono permettendo loro di dirmelo per arrivare al punto in cui sono loro a gestire le fila della narrazione. Gli elementi cinematici arrivano dopo, con la lavorazione del film.”

Con quale personaggio dei suoi film andrebbe d’accordo, e con quale invece litigherebbe.

“Mh..D’accordo: Cliff, mi ci troverei bene. Mi piace, mi è simpatico. Anzi no, (ci pensa, a lungo). Allora, Cliff. Quello che odio è Calvin, ma non ci discuterei. Quello con cui litigherei è Dalton, è un piagnucolone, ha avuto una bella carriera e non la apprezza abbastanza. Nell’evoluzione del film e del romanzo va al di là della vanità. Leo scherzava sempre su questa cosa, tutti si dispiacevano per lui. Lui diceva ‘Voi siete dispiaciuti, ma non Quentin’. Bisogna capire però che i personaggi che mi piacciono non sono necessariamente persone con cui passerei del tempo. Non ho mai creato un mondo in cui vorrei abitare.”

Se potesse uccidere qualcuno per migliorare il corso della storia, o cancellare un film dalla mente del pubblico, quale sarebbe?

“Accidenti che domanda negativa, orrenda. Lei sta un po’ scherzando, dunque anche io farò altrettanto, ci giocherò un po’. Ho grandi problemi, come tante persone, con La nascita di una Nazione. Sono molti i motivi, ma in particolare è per il fatto che abbia portato alla rinascita nel XX secolo del Ku Klux Clan, e al controllo del Sud per la prima metà del XXI secolo. Solo dopo l’affermarsi dei Movimento per i diritti civili negli anni ’60 il suo ruolo si ridimensionò. Ci sono molti neri, ebrei morti, uccisi dal Ku Klux Clan in quei cinquant’anni, e tanto terrorismo. Il KKK non sarebbe rinato se non fosse stato per questo film. Se pensiamo alla guerra razziale, che esiste da cinquant’anni, se prendiamo Griffith, lo portiamo a Norimberga e lo mettiamo nella stessa situazione di quei vertici, assolti per gli effetti del film, io penso che lo dichiarerebbero colpevole, e verrebbe processato secondo i principi che hanno disciplinato Norimberga. Non vorrei poterlo uccidere, io non vorrei uccidere nessuno, scusate”.

Leggi anche Quentin Tarantino accusato di essere un feticista: il regista si difende