Fuga da Alcatraz: spiegazione del finale

Lo stile asciutto del film si fa metafora dell’uomo e della sua dimensione di libertà.

Prodotto in cooperativa proprio tra la casa di produzione del regista e quella del suo interprete-feticcio, Fuga da Alcatraz è una ricostruzione storica perfetta, impeccabile, appassionante e quasi documentaristica di un avvenimento realmente verificatosi.

L’undici giugno del 1962 tre reclusi evasero dalla terribile prigione-fortezza di Alcatraz, nessuno prima di allora era mai riuscito a portare a buon fine una fuga, ma Frank Morris e i due fratelli Anglin ci riuscirono. Questa è la storia, realmente accaduta, narrata nel film.

Fuga da Alcatraz: stile asciutto e un Clint Eastwood impeccabile

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In Fuga da Alcatraz si colloca nel pieno di un cinema americano classico, nel quale si insinua uno stile povero, moderno e inconfondibile. Nell’ultima collaborazione con l’amico Siegel, Clint Eastwood regala una delle sue migliori interpretazioni, la cui freddezza, mai si rivelerà tanto funzionale al contesto: una chiave vincente per un’opera silenziosa, monastica, serrata, irrinunciabile. Morris è la sintesi dei personaggi di Siegel: un uomo astuto il cui quoziente intellettivo superiore gli permette di osservare tutto in un rigoroso silenzio. Una figura senza passato e senza famiglia, come lui stesso afferma saranno caratteristiche che, però, ne fanno indubitabilmente un vincitore, conferendogli la possibilità di osare senza dare nell’occhio.

L’ambientazione rientra nel filone carcerario, secondo tipologie e stilemi che di esso si conoscono e si manifestano tramite la durezza delle istituzioni, l’arroganza dei secondini e il sadismo del direttore. Fuga da Alcatraz è un film asciutto, misurato, completamente privo di fronzoli eppure estremamente ricco cinematograficamente. La pellicola si rivela essere piuttosto un saggio sulla dignità dell’essere umano e sulla libertà come suo bisogno inalienabile, dove la prigione (e in senso lato l’America) è metafora di una dimensione oppressiva. Grazie a un’attenta costruzione geometrica dello spazio come elemento visivo fondamentale, il regista dà vita a un racconto che ragiona per sottrazione e scarnifica la linea narrativa, i dialoghi e i personaggi fino all’essenziale. Considerato come uno dei migliori film carcerari di sempre, questo lo si deve soprattutto proprio allo stile del regista che prosciuga l’impianto filmico di qualsiasi elemento, comprese le connotazioni psicologiche dei personaggi. Tutto avviene in spazi angusti e stretti, e la tensione nasce proprio dalla sensazione claustrofobica e dall’assenza di aria.

Il finale: oltre la fuga

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Quello che colpisce del film è sicuramente il carattere del protagonista che, alle prese con ostacoli logistici e barriere umane, è caparbio nell’inseguire a tutti i costi il concetto filosofico per il quale: se una cosa è possibile, essa diventa reale. Evadere da Alcatraz fattore ritenuto impossibile, pare vacillare grazie a un QI sopra la media e una grande forza di volontà in grado di portare la luce tra le tenebre di un microcosmo malato.

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Fuga da Alcatraz muove la macchina da presa privilegiando l’aspetto antropologico e disegnando un quadro fedele del tessuto sociale americano: la differenza tra classi  e l’istinto di sopravvivenza di fronte a un sistema oppressivo-repressivo. Ecco quindi che accanto al leader Clint Eastwood si fanno avanti una polifonia attoriale atta a creare un tessuto tematico intriso di sotto-testi. La pellicola diventa, contemporaneamente, simbolo di istanze reazionarie e rivoluzionarie prediligendo l’azione pura alla meditazione. Grazie al montaggio efficacie e a una seconda parte della pellicola, dominata da un sentimento catartico, si crea un esponenziale effetto suspense nelle scene in cui Frankie prepara gli strumenti della fuga. A questo si aggiunga la forte contrapposizione caratteriale modulata attraverso i fatti più che con le parole: di fronte al direttore aguzzino che pone in atto movimenti soppressivi che tendono a cancellare l’identità di ogni singolo individuo, si contrappone l’anti-eroe Frank Morris che spezza le catene della violenza psicologica lasciando agli aguzzini solo reliquie: una testa di pupazzo di cartapesta.

Ecco quindi che si giunge verso un finale aperto che guarda verso il mare ogni possibile libertà: non sapremo mai se i tre fuggiaschi sono annegati o sono arrivati a San Francisco, i cadaveri non saranno mai trovati, rimane un crisantemo a testimoniare un’assenza che pesa più di una presenza. Quello che interessa, in modo significativo, al regista è l’uomo quel Frank Morris che ha dimostrato il suo teorema: se una cosa è possibile essa diventa reale.