i-Fest 2020 – Cosa pensiamo dei cortometraggi e dei documentari della Selezione Ufficiale

Scopriamo tutte le opere della Selezione Ufficiale Documentari e della Selezione Ufficiale Short dell'i-Fest 2020.

L’i-Fest International Film Festival 2020 è in corso fino al 20 settembre presso lo spettacolare Castello Aragonese di Castrovillari (Cosenza), con tante iniziative interessanti di cui vi abbiamo già parlato qui. Oltre a essere media partner della kermesse, che vede la direzione artistica di Giuseppe Panebianco, Cinematographe.it è stato chiamato in causa per la valutazione dei cortometraggi e dei documentari.
Abbiamo dunque visto i cinque lungometraggi entrati nella Selezione Ufficiale Documentari e i venti cortometraggi della Selezione Ufficiale Short al fine di decretare, insieme agli altri membri della giuria, i vincitori dei premi Miglior Short, Miglior Doc, Miglior Regia Short e Miglior Regia Doc. La posta in gioco? La pubblicazione dell’opera sulla piattaforma di Rai Cinema Channel.

Detto ciò, facciamo una panoramica generale sui lavori che abbiamo visionato sottolineando necessariamente che, al netto di gusti, tendenze e migliorie possibili, tutte le opere riescono a lasciare il segno nello spettatore, a far riflettere sul mondo in cui viviamo e sull’idea stessa dell’arte e del cinema. Tutti, insomma, meriterebbero almeno una visione.

i-Fest 2020: la Selezione Ufficiale Documentari

L’arte e il bisogno di migliorare la società in cui viviamo, di spendersi per il prossimo, percorrono i documentari presentati in questa edizione dell’i-Fest International Film Festival. Ben tre lungometraggi, infatti, si soffermano sulle figure di artisti, con riferimento a stili e periodi differenti. La regista Giulia Giapponesi, per esempio, porta all’attenzione le opere dei fratelli Agostino e Annibale Carracci e del cugino Ludovico Carracci, nel documentario Carracci – The silent revolution. Ad accompagnare lo spettatore alla scoperta della loro silenziosa rivoluzione, di cui si trova traccia dentro e fuori i confini italiani, l’art advisor Marco Roccòmini. Il lungometraggio si rivela essere una combo ineccepibile di pennelli, stili e immagini, sorretta dalle sinfonie dei The Trouble Notes e dalla fotografia di Salvo Lucchese. Vi accorgerete che, al pari di Caravaggio, anche a voi non resterà altro che tacere davanti a questa opera; tacere e alzare il volume dell’arte, così lontana eppure così vicina al nostro tempo.

Un’altra figura rivoluzionaria trova spazio nella selezione ufficiale documentari ed è quella di Artemisia Gentileschi, il cui nome è ormai inevitabilmente associato al femminismo. Il documentario diretto da Jordan River, Artemisia Gentileschi, Warrior Painter, ripercorre la vita dell’artista, dall’infanzia presso la casa del padre Orazio (che le insegnò le basi del mestiere) fino allo stupro subito dal maestro Agostino Tassi, passando per le sue vicissitudini lavorative e sentimentali. Un affresco sicuramente esaustivo della biografia della Gentileschi che, almeno nel nostro Paese, sta godendo di una riscoperta degna del suo ingegno (di recente, l’8 luglio del 1593, Google ne ha persino ricordato l’anniversario di nascita con un doodle), ma che tuttavia manca di originalità e che sfrutta poco la presenza dell’attrice Angela Curri, chiamata in causa per interpretare l’artista.

Walter Bencini chiude il cerchio dei documentari d’arte con L’ultimo uomo che dipinse il cinema: un viaggio emozionante e necessario alla scoperta di uno dei più grandi illustratori viventi, Renato Casaro, attraverso la cui storia si apprende quella del cinema stesso, della pubblicità, dell’illustrazione e dell’arte. Lo spettatore apprende la magia della settima arte attraverso le parole dell’artista stesso – che si racconta mentre dipinge o mostra le sue opere – e delle personalità che hanno avuto l’onore di lavorare con Casaro: Carlo Verdone, Aurelio De Laurentis, Terence Hill, Dario Argento, Vittorio Cecchi Gori, Federico Mauro ed Enrico Vanzina, il quale asserisce: “Il manifesto è l’unica cosa che resta del film, il web si dissolve”.
Pugni chiusi - Il pugilato in carcere Cinematographe.it
Chiudendo la parentesi dell’arte, nella selezione documentari troviamo Pugni chiusi – Il pugilato in carcere, un documentario breve ma intenso (dura 25 minuti) diretto da Alessandro Best in cui si ribalta la concezione del pugilato in carcere da arma di combattimento a chance di cambiamento. La regia è lineare, le dichiarazioni pungenti, la macchina da presa sa inquadrare perfettamente il sudore e al sacrificio e farci andare fuori dalla comune concezione del carcere. Lo sport acquista allora un altro senso: è disciplina, rinascita, è sentirsi “essere umano” in un ambiente in cui si è considerati peccatori.
A parlare di rinascita e seconde possibilità è infine anche Malavita (The Underworld) di Paolo Colangeli. Il film si concentra sulla storia di un ex baby-gangster che, dopo anni di carcere e teatro, torna a Napoli, tra i vicoli in cui la camorra la fa da padrone e giovani e donne sembrano non avere altra scelta se non quella di spacciare, rubare, delinquere. Ma il protagonista, Sasà Striano, sa che un’altra scelta è possibile, lo sa perché anche lui era come quella gente e invece adesso è cambiato, ha capito che la “Malavita è un grande fallimento” e quei giovani, quella gente, ha il diritto di aprire gli occhi, deve avere la possibilità di cambiare. Ecco allora che la messa in scena di un Macbeth in napoletano è la scusa per reclutare giovani attori e per dargli un’opportunità. La macchina da presa ci conduce nel marcio di quel mondo, ci mostra una Napoli sporca in cui si riversa il marcio del mondo, una città ai margini. È solo quando la gente inizia a intuire l’opportunità di cambiare che pian piano i bordi dei marciapiedi lasciano spazio all’arte partenopea, la bruttezza monotona dei quartieri popolari che sanno di malavita si dirada per far respirare un po’ di bellezza e anche la musica si trasforma (i versi napoletani si fanno da parte a favore della musica classica).

i-Fest 2020: la Selezione Ufficiale Short

La selezione ufficiale inerente i cortometraggi vede opere validissime sotto diversi punti di vista e abbraccia le più disparate tematiche. Ecco un nostro parere sui cortometraggi visionati.

klod cinematographe.it

Con La bellezza imperfetta Davide Vigore mette in mostra, attraverso una collisione di anime e fisicità distanti, un esercizio registico impeccabile tanto quanto la fotografia di Daniele Ciprì. La sceneggiatura, forse, avrebbe necessitato di un minutaggio maggiore per catturare appieno l’attenzione dello spettatore, ma resta comunque l’incanto di una Palermo sospesa nello sguardo di Girolamo Scimone, uomo di 65 anni solitario e pieno di vizi, e Victoria, una bellissima ragazza ucraina giunta in Italia con l’inganno.

In Klod Giuseppe Marco Albano riesce a tessere, in meno di 15 minuti, tutte le trame del sogno di un ragazzino e a raccontarci al vera storia del quella del cestista Klaudio Ndjoa, arrivato a Brindisi dall’Albania su un barcone. La vicenda, già raccontata ne libro La morte è certa la vita no di Michele Pettene, viene narrata attraverso colori e suoni, sfumando i pensieri con le nuvole e con le onde del mare. Albano gioca con la luce e le ombre, dosandole con maestria affinché lo spettatore evinca il senso di perdita e la soddisfazione della rivincita.

Interessanti i piani sequenza dinamici e frizzanti di Andrea Andolina, che nel cortometraggio A colloquio con Rossella (Interview with Rossella) trascende il cambiamento fisico della protagonista concedendoci uno sguardo ravvicinato, plastico, estensibile. La casa è allora la lavagna in cui appuntare le evoluzioni quotidiane, un luogo che acquista colori, sfumature e odori diversi solo grazie al sentore della vita e della morte che si afferrano a fasi alterne. Il più grande pregio del regista è lasciar trapelare la perenne presenza là dove, in realtà, c’è assenza.

Nel cortometraggio La confessione Benedicta Boccoli ci mette davanti alla purezza di una ragazza che raconta al suo prete di fiducia ciò che le è capitato: aspetta un bambino ma non ha avuto alcun rapporto. Intrigate come la regista ci conceda un’immagine nitida e ravvicinata dei due protagonisti quasi esclusivamente tra le mura ecclesiastiche, come a voler sottolineare che la ragazza esiste (con tutte le sue credenze, angosce e richieste) solo al cospetto di Dio. Azzeccata la scelta dei colori e preziosa la fotografia di Daniele Ciprì.

Tra i cortometraggi anche Schiavonea di Natalino Zangaro, che narra l’incontro tra un ragazzo calabrese e un’immigrata. Tutta l’opera forse potrebbe sintetizzarsi nella scena della giostra in cui rievocazioni fiabesce e orrorifiche si abbracciano, fiancheggiate da una rotazione che è mutamento imprevedibile e continuo.

Sempre in Calabria, stavolta nella tonnara di Palmi, è ambientato U Scantu. In questo short movie il regista Daniele Suraci si dimostra attento ai dettagli; dalle location alla scelta del cast, in cui fa capolino – per la prima volta sullo schermo – il giovanissimo Giuseppe Romeo, in grado di regalare all’opera tutto il magnetismo trainante di cui necessita. U Scantu indaga l’animo umano interrogandolo sui concetti di coraggio, solitudine e confronto, forte di una regia che esaspera le altezze, trasforma i bambini in adulti e i genitori in figli. Afferra la paura, la curiosità, il coraggio, dandogli un peso che sarebbe impossibile non avvertire sullo stomaco. Insomma, Daniele Suraci sa come ingabbiare la bellezza ma, soprattutto, come liberarla alla fine dei giochi.

Colpevoli è invece un cortometraggio dai risvolti inaspettati in cui Edoardo Paoli ribalta i cliché, sorretto dall’interpretazione magistrale di Daniele Parisi e Ivano Marescotti.
C’è poi Fly di Gianni Saponara, una fugace pittura agreste che ci tiene sospesi tra cielo e terra, sorretti dalla musica soave di Federico Ferrandina, in un mondo in cui la presenza umana e animale sembra non essere più contemplata.

Goodbye my Son di Yuichiro Nakada parla di famiglia (e nello specifico del rapporto padre/figlio) al pari di Baradar di Beppe Tufarulo, un corto che è amore fraterno e puro, è tristezza e speranza. Un’opera che spezza il cuore, in cui lo stato d’animo dei personaggi passa dai colori prima ancora che dalle parole.

Nella selezione ufficiale cortometraggi non manca Servi di Biciclette di Michele Granata il quale, strizzando l’occhio a De Sica, narra il risvolto triste della nostra società che, senza lavoro né diritti, finisce per perdere anche quel pizzico di umanità rimasta, lasciando sul finale un senso di vergogna, sconcerto e disperazione.

A lasciarci addosso solo la voglia di fuggire è invece Célestine di Marie-Stéphane Cattaneo, che ci trascina nell’avventura di una donna di ottant’anni che, con l’arrivo delle vacanze, sente il bisogno di fare i bagagli e partire, lasciandosi dietro la routine.
La piaga dell’omofobia e della violenza sulle donne viene invece affrontata, parafrasando Nietzsche,  in Amor Fati di Luca Immesi.

L’amore oltre il tempo cinematographe

Bello l’omaggio che Emanuele Pellecchia regala al cinema muto con L’amore oltre il tempo, in cui il regista resuscita la bellezza della mimica e del bianco e nero per dare vita a una personale lettera d’amore indirizzata non solo al sentimento tra un uomo e una donna provenienti da epoche diverse, ma anche e soprattutto alla settima arte.

Sempre di amore parla il regista Michele Bertini Malgarini in Voler essere felice ad ogni costo. Un’opera che usa il pretesto della conoscenza in chat tra due ragazzi per condurci su un’isola abitata esclusivamente da persone sorde. Il bello sta nel ribaltare il sistema interrogandosi sui concetti di anormalità e normalità. Una commedia ricca di ironia e di bravi attori che Sto arrivando! farci riflettere.

Rimanendo sempre nella comfort zone dell’amore non si può non menzionare Noi siamo la notte: una moltitudine di emozioni affollano nei pochissimi minuti del cortometraggio, in un viaggio di andata e ritorno immediato che, grazie alla sapiente regia di Adriano Ricci, ci fa respirare la freschezza di una seconda possibilità.

Tra gli altri corti selezionati all’i-Fest 2020 Under the water di Davide Lupinetti e Giovanni Zalloni, che mette sotto i riflettori la bellezza che solo l’altruismo e la generosità possono scatenare. Un progetto che ogni scuola dovrebbe e potrebbe prendere come esempio.

Si aggiungono Il nido del cuculo di Thomas Perathoner (ambientato in un ospedale psichiatrico), il thriller sci fi Charged di Philip Woods e Il Capolavoro di Stefano Moscone che, ricorrendo a grafiche da fumetto mixate alla tradizionale regia, narra il dilemma di un artista.