Un eroe: recensione del film di Asghar Farhadi

Grand Prix Speciale della Giuria allo scorso Festival di Cannes, il nuovo film di Asghar Farhadi ora in sala riprende la meditazione sull’inconscia risoluzione umana a complicare la banalità del bene.

Del cinema di Asghar Farhadi, regista iraniano classe ’72 divenuto celebre soprattutto grazie alla vittoria agli Oscar di Una separazione (2011) e Il cliente (2017), si dice spesso che è un’indagine, dalle implicazioni morali, sull’inafferrabilità di ciò che è vero, poiché ciò che è vero è sempre velato dalle rifrangenze delle nostre percezioni. 

Eppure, se guardiamo attentamente il suo ultimo lavoro, Un eroe, nelle sale dallo scorso 3 gennaio, è possibile sconfessare facilmente la prima, più superficiale, impressione: come in About Elly (2009), l’opera in cui la poetica farhadiana si è rivelata allo stesso tempo precocemente e compiutamente, anche in questo film la verità dei fatti è molto più semplice di quello che si crede, di quanto chi si ritrova nella posizione di assistere, in condizione di insipienza, a un fatto anomalo – in About Elly, l’improvvisa scomparsa di una giovane maestra, in Un eroe, la restituzione di un tesoro – si fabbrica per deviare rispetto alla via lineare della resa all’evidenza.

Sebbene ostaggio di una certa stanchezza da eccesso di maturità e dello spettro incombente dello stile tardo, con il consueto mestiere Farhadi duplica nella finzione cinematografica quel che osserva nella società iraniana contemporanea: una cultura del sospetto e della complicazione resistente a ogni cambiamento e in grado di trasformare una storia di redenzione in una fantasmagoria grottesca di contronarrazioni insinuanti e decostruenti, amplificate nella loro frammentarietà anche da quei social che sminuzzano il reale per garantire al loro pubblico sempre più vasto (e indolente) emozioni processabili rapidamente, indignazioni pronte al consumo. 

Un eroe: la fiaba nera di Rahim, un uomo onesto vittima delle altrui proiezioni

Amir Jadidi, attore e tennista iraniano, interpreta Rahim, protagonista del film.

Così Rahim, un pittore-artigiano dagli occhioni verdi e lo sguardo pulito, in prigione perché non è riuscito a saldare il debito contratto con l’ex cognato, nonostante possegga il candore dell’idiota dostoevskijano e abbia compiuto, senza secondi fini, un gesto di grande nobiltà – la restituzione di una borsa dal cui contenuto avrebbe potuto ricavare il suo ‘riscatto’ –, finisce per pagare non solo in termini di libertà, ma anche di reputazione, per la sua bontà senza ombre. Non riesce, infatti, a schivare i fantasmi che albergano negli altri uomini, in chi non può e non vuole riconoscere al bene, così come al male, il suo statuto di banalità. E in chi, come l’ex cognato e la figlia di quest’ultimo, fa anche dell’onestà un campo di battaglia, il terreno di una competizione fallica, della misurazione di un primato.   

Un film solo moderatamente civile e allegorico: dentro ci sono soprattutto l’umano e le sue catene

‘Un eroe’ del regista iraniano Asghar Fahradi, due volte premio Oscar nel 2012 con ‘Una separazione’ e nel 2017 con ‘Il cliente’, è stato premiato all’ultimo festival di Cannes.

E non è dunque tanto vero che, per Farhadi, la realtà ha più facce, è anzi vero il contrario: che ciascuno si ostina a voler complicare le letture elementari per inseguire la promessa di significati, vittima di quell’incespicare del pensiero che trova concretizzazione simbolica nella struggente balbuzie del figlio di Rahim, in una disarticolazione del linguaggio che denuncia le trame che ci incantano e incatenano, quelle stesse che non vogliamo vedere in noi stessi e, così, cerchiamo fuori, negli ultimi, negli ottusi, negli ingenui. C’è del marcio in Iran, sì, come dappertutto. Ma c’è del marcio sempre e soprattutto nei lacci inutilmente tortuosi delle nostre menti prigioniere e imprigionanti. 

Un eroe di Asghar Farhadi è un film in fondo non completamente riuscito, soddisfacente e risolto (non che una risoluzione fosse necessaria), è senz’altro meno civile di quel che si può pensare e solo modestamente allegorico: vi riconosciamo sì i malcostumi del suo Paese, ritrovato attraverso i film dopo due esperienze internazionali; vi scorgiamo metafore più o meno esplicite del rapporto tra verità e menzogna, tra libertà e schiavitù; eppure, quel che in primo luogo il film ci mostra è che l’uomo ha appreso, e mai più disimparato, a complicare per non fare i conti con ciò che, spesso miserabilmente, è. E soprattutto non è.  

Regia - 3
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

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