Nero: recensione del film di e con Giovanni Esposito

Una parabola sull'altruismo contemporaneo, nel tempo asfissiato dall'egoismo. Nero ci mostra come amare.

La poesia umana trafigge la periferia campana in Nero, un’opera cinematografica che ci trasporta ai confini dell’io, nella sottile intercapedine che separa l’amor proprio dal benessere collettivo, il concetto di giusto e sbagliato. Nel film che segna il debutto alla regia di Giovanni Esposito l’attore rimodula la comicità in un grido di disperata speranza, intrecciando nelle pieghe di un riso amaro tutta la tenerezza umanamente possibile.

La macchina da presa è lesta nel farci comprendere, fin dai primi minuti del film, chi è Nero (interpretato dallo stesso Esposito): non un delinquente, ma un uomo costretto ad adeguarsi a un sistema societario che lo costringe ai margini, burattino in mano ai boss malavitosi, straniero in un quartiere abitato da stranieri. Nero non è cattivo ma, si sa, in questo mondo si fa presto a diventarlo: una rapina finita male, un colpo di pistola esploso per sbaglio ed ecco che da rapinatore si passa ad assassino. Eppure accade qualcosa, un fatto inconsueto, lontano da ogni prospettiva possibile: le sue mani guariscono e il salto da delinquente a santone è assai breve.

Nero: il significato del sacrificio e della cura nel film di e con Giovanni Esposito

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Non è la prima volta che la letteratura cinematografica (e seriale) italiana ci racconta storie come questa, ma in Nero questo spazio di miracolosità diviene terreno fertile per interrogarci sul significato autentico della parola “sacrificio”, dal latino “sacer” (sacro) e “facere” (fare), cioè “rendere sacro”.
Cosa può mai sacrificare un uomo a cui la vita non ha lasciato quasi niente di materiale? La risposta è semplice: Nero taglia via parti di sé e a ogni miracolo perde qualcosa (il tatto, l’olfatto, il gusto, l’udito). Quanto, però, è disposto a barattare se stesso per il bene collettivo? E quando la perdita di sé diviene sprecata? In tutti i casi il protagonista si trova a guarire sotto coercizione e forse solo in un caso la sua intercessione era davvero essenziale e moralmente necessaria.
“Perché allora non guarisci tua sorella”, gli domanda la sua amica (interpretata da Anbeta Toromani). Ma cosa dovrebbe guarire Nero di Imma (Susy Del Giudice), “la sensibilità? Che è una malattia?”, ribatte lui. E in questo dialogo si condensa tutto l’amore fraterno che il film trasmette e che affiora nella cura con la quale il protagonista nutre la donna, affetta da una grave forma di disabilità; una cura fatta di delicatezza e tenerezza, di abbracci, giochi infantili e immensa comprensione, che lo porta a mettere al primo piano sempre e solo Imma.

Uno sguardo raro verso la disabilità

Nell’immettere nel racconto il personaggio di Imma Giovanni Esposito, che firma la sceneggiatura insieme a Francesco Prisco e Valentina Farinaccio, ci concede uno sguardo disincantato e profondamente umano del rapporto con la disabilità in un contesto quotidiano. Il concetto di diversità si tramuta con naturalezza in un valore aggiunto, in uno sguardo disincantato e privilegiato sul mondo: Imma ridisegna la realtà adornandola di fiori, dipingendola di un blu bellissimo e tingendola di una complessità sottesa che Nero realizzerà solo sul finale, in un dono per niente sofferto che si rivela essere una semplice restituzione, sempre voluta e mai dovuta.

Il potere della narrazione è allora racchiuso tutto in questo rapporto speciale, in questi confini labili e dannatamente umani che inducono alla scelta, a definire – ognuno a modo proprio – cosa è giusto e sbagliato. Nero non rincorre la fama né la ricchezza, bensì una normalità che è tale secondo la sua concezione: vivere bene insieme alla sorella, andare via da un posto che sa non essere socialmente sano, stare tranquillo, essere una brava persona. Già, essere una brava persona. Questo Nero lo vuole più di ogni altra cosa, anche quando la vita glielo impedisce, persino mentre i margini del mondo lo inghiottono. Non è un caso se l’ultimo sguardo che si concede si affaccia a una natura apparentemente incontaminata, un Eden raffazzonato, uno scampolo di Paradiso.

Nero: la regia di Giovanni Esposito in una fiaba urbana musicata (anche) da Giordano Corapi, con la fotografia di Daniele Ciprì

La fotografia di Daniele Ciprì disegna i contorni di una realtà che profuma di fiaba e drammaticità, ponendo l’accenno sulle visioni contrapposte dei due fratelli. Se da una parte abbiamo ritratti striati d’inchiostro, passati al setaccio da una lente ottusa e limitante, dall’altra si fanno largo i colori della gioia e della quiete e lo sguardo si allunga verso prospettive altre dalla monotonia.
La cinepresa di Giovanni Esposito squadra la periferia, ne elimina il marciume in eccesso e punta spesso in alto, dove i gabbiani volano ma non si vedono. Come se volesse edulcorare il male senza avere la pretesa di eliminarlo del tutto. E poi si allunga, si affaccia, si intreccia nei dettagli del quotidiano, a mostrare un capezzale di disegni, a sorprendere i colori sul viso, le tende velate che giocano a nascondino col reale, per intrappolare quella magia che resta, nonostante tutto.

Una parabola sull’altruismo contemporaneo, nel tempo asfissiato dall’egoismo. Nero insegna senza avere la pretesa di farlo e tra le immagini – la scenografia è di Luigi Ferrigno, i costumi di Rossella Aprea, il montaggio di Lorenzo Peluso – infila sinfonie di quiete, talvolta leggere ed essenziali come frammenti di cristalli sul velluto. Le musiche originali di Giordano Corapi si combinano così con una storia umana in cui si entra in punta di piedi, abilmente intercalate da brabi quali Felicità di Lucio Dalla e The storm di Giovanni Esposito ed Elio Manzo.

Nero: valutazione e conclusione

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Nero, che si avvale della supervisione artistica di Francesco Prisco, vede nel cast oltre ai già citati, anche Peppe Lanzetta, Giovanni Calcagno, Marius Bizau, Riccardo Ciccarelli, Emmanuel Dabone, Gennaro Di Biase, Vittorio Ciorcalo. Nonché l’amichevole partecipazione di Roberto De Francesco, Cristina Donadio e Alessandro Haber.
Un debutto alla regia che non passa inosservato, che affronta una moltitudine di problemi contemporanei senza risultare mai eccessivo. Periferia, santità, malavita, disabilità convivono tra le trame della pellicola in una danza naturale, che lascia sul fondo un intenso profumo di umanità, l’idea indissolubile del bene fraterno: atavico, indiscutibile, sincero. Legato da un filo sottilissimo e taciuto; una matassa finissima di cui alla fine si ritrova il bandolo. Finisce così Nero: due esseri poggiati sul creato, come i primi venuti al mondo (o come gli ultimi sopravvissuti). Soli in uno spazio che ci ha dimostrato di non concepire l’amore incondizionato. Eppure lo gridano. Nero lo grida fino al midollo, ce lo grida sottovoce, come chi non vuole dirci cosa fare, ma come. E ce lo mostra. Nero ci mostra come amare.

Il film, presentato in anteprima al Torino Film Festival 42, è al cinema dal 15 maggio 2025, distribuito da BARTLEBYFILM, che si è occupata della produzione insieme a RUN FILM, PEPITO PRODUZIONI e RAI CINEMA.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 3

3.6