Nato a Xibet: recensione del film di Rosario Neri

Nato a Xibet è la storia di Pietro, bambino di Calascibetta, in provincia di Enna, che vive la realtà del suo paese e aiuta il padre che di mestiere fa il pastore. Un destino segnato, ma Pietro ha grandi sogni: una volta adulto infatti decide di lasciare la propria terra per farsi una nuova vita al nord.

Scritto e diretto da Rosario Neri, Nato a Xibet sembra nascere con un preciso intento didattico: far conoscere la storia e i valori della Sicilia. La “vecchia” Sicilia, quella che non esiste più o che sta scomparendo, a uso e consumo sì dei neofiti ma anche dei siciliani stessi, protagonisti di uno spaccato che rinverdisce i loro usi e costumi e le loro – spesso dolorose – scelte di vita. Un progetto nato grazie all’incontro fra il regista e il produttore della toscana Lorebea Film Maurizio Macelloni, figlio di madre siciliana.

Va da sé che, facendo un piccolo sforzo, possiamo in parte immaginare questa fiera vicenda locale adatta a qualunque realtà e latitudine italica: il legame indissolubile con la nostra terra e la nostra educazione, la necessità di emanciparsi affrancandosi e sradicandosi dai propri affetti, la costante nostalgia del passato e dei nostri fondamentali imprinting culturali e sociali. Discorsi universali, che rimandano a un potente senso di appartenenza tipico di un’Italia in cui spessissimo la tradizione si scontra in maniera irrisolvibile con la modernità.

Nato a Xibet: la Sicilia che scompare

Nato a Xibet cinematographe.itLa prima parola che viene in mente guardando Nato a Xibet è “affresco”: il racconto di Pietro La Paglia, nato e cresciuto a Calascibetta, ovvero in piccolo paese dell’entroterra in provincia di Enna, prende le mosse dai suoi ricordi di bambino, quando aiutava il padre nell’attività di pastore. Nella sua mente riaffiorano le immagini della scuola e dei luoghi d’infanzia, delle botteghe artigiane e anche dei primi amori (la ragazza con la bicicletta). Un destino, il suo, che sembrava segnato, perché i mestieri si tramandano di padre in figlio, e in fondo anche perché abbandonare le proprie radici porta con sé anche una certa idea di tradimento degli ideali e della propria fedeltà.

Ma Pietro, invece, se ne va, trasferendosi al nord e assecondando quella che fin da piccolo era stata la sua passione: la fotografia. L’avventura che noi seguiamo, tuttavia, non è quella della sua nuova vita, ma del suo ritorno al sud al proprio paese, in quella Kalat Xibet (il nome arabo di Calascibetta, letteralmente “rocca fortificata sul monte”) in cui ha lasciato il cuore. Si procede a strappi, ad aneddoti, volando con la fantasia ai carretti siciliani del maestro Domenico Mauro e al ricordo di un matrimonio riparatore celebrato in campagna, al miraggio dell’America sognata dai nonni e alle conversazioni dal barbiere in cui si ascolta musica dal vivo. È una Sicilia che non esiste più, che scompare, a cui guardare con malinconia: se si abbandonano i luoghi, si cancella la memoria.

Nato a Xibet: tra genuinità e ingenuità, tra disillusione e sogno

Nato a Xibet cinematographe.itL’autenticità e la genuinità dell’operato di Neri si riflette tuttavia anche sulla buona riuscita del film: Nato a Xibet è un’operazione sicuramente amara (la chiosa finale in voce off non lascia scampo: i siciliani “sono bloccati, non hanno voglia di fare, di agire, sono in perenne oblio, inerti”) ma di fatto profondamente retorica, che fa appello a una nostalgia che, per sua definizione, falsifica e idealizza un po’ gli eventi del passato. Forse perché vista attraverso gli occhi di un (fu) bambino, la storia risulta edulcorata e scarsamente approfondita, una favola e un’elegia romantica a cui credere senza farsi troppe domande.

Nulla di sbagliato o offensivo, sia chiaro: il fatto – ad esempio – che finalmente non si associ la Sicilia alla mafia è già di per sé un gesto che vale l’intera visione della pellicola. Ma è un peccato che, probabilmente nel timore di lasciare qualcosa di non detto, ci si ritrovi con svariati argomenti appena accennati e di conseguenza trattati con superficialità. Sovente i dialoghi sono troppo scritti, rendendo impossibile quell’immedesimazione nella vita quotidiana che sarebbe l’intento principale del prodotto; e altrettanto spesso il desiderio di ricostruzione d’epoca – coi suoi profumi, i suoi luoghi, i suoi sapori – si scontra con un’ingenuità digeribile solo pensando alla bontà del messaggio finale, ben espressa dall’asciutta presa di coscienza di Pietro, mentre guarda dal finestrino del treno andandosene nuovamente via dal suo paese natìo: “Un giorno, spero… no, forse è troppo tardi”. La disillusione ha infine preso il posto del sogno.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 2
Sonoro - 2.5
Emozione - 2

2.3