Menocchio: recensione del film di Alberto Fasulo

Un film che punta sulla luce e le ombre, ma rimane bloccato nella sua storia.

Menocchio è realmente esistito. Menocchio si è opposto ai credi della Chiesa e lo ha fatto cinquecento anni fa, in un secolo in cui era imprescindibile il legame che legava i cittadini e l’autorità religiosa. Menocchio era un eretico, un uomo che ha rifiutato di credere alla verginità di Maria e ha affidato la propria fede alla natura, al vento, agli alberi. La storia di Menocchio viene portata alla visibilità dallo storico Carlo Ginzburg con il libro Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500 e diventa ora film per il regista dei precedenti Rumore Bianco (2008), Tir (2013) e Genitori (2015) Alberto Fasula, con protagonista Marcello Martini.

Ed è proprio il solo nome del personaggio reale, Menocchio, che costituisce l’ultima opera cinematografica dell’autore friulano, che rende primari quegli elementi che l’uomo della terra lodava al posto di un Dio di cui aveva rispetto, ma a cui non sentiva di poter affidare la propria anima.

Menocchio – Le luci e le ombre di un eretico menocchio cinematographe

Menocchio (Marcello Martini) è un eretico. E non si limita solo a pensare agli atti impuri che avrebbe dovuto compiere la Madonna per dare alla vita Gesù, ma predica, come un oratore che non vuole necessariamente dimostrare la verità, ma solamente arrivarci il più vicino possibile. Le parole passano però di bocca in bocca, di mente in mente, fino a giungere alle orecchie della Chiesa. E così Menocchio viene rinchiuso in una prigionia sotterranea, nera come la notte più profonda.

È solo luce quella che buca l’oscurità dell’opera Menocchio. Nient’altro che scintille naturali, che creano ombre e contorni nella scena, come dipingendo gli ambienti attraverso la tecnica della ripresa. E nella sfumatura della fotografia calda e diffusa con cui vengono inquadrati gli attori, i volti dei personaggi sono evidentemente scavati, solcati da ogni imperfezione, da ogni asimmetria, da ogni ruga che solca il viso e lo rende oggetto per un ritratto pittorico. Tanta arte dei ritrattisti ispira le immagini in sequenza del film di Fasula, primi piani che con una direzione semplice, ma molto efficace sembrano estrapolare i protagonisti da vecchi quadri e ricollocarli così nella pellicola del regista.

Un’illuminazione diegetica che rende l’atmosfera tetra, come la cecità di chi non si accorge che il Dio degli uomini ha reso prospera e sfarzosa la Chiesa mentre ai poveri ha lasciato solamente l’umiltà e l’obbligo di una fedeltà illimitata. E dal buio i riflessi luminosi squarciano e tagliano le immagini, rendendo il comparto della luce e delle ombre il sostegno per l’intera anima del racconto.

Menocchio – L’immobilità della storia del mugnaiomenocchio cinematographe

Non ha infatti altro su cui appoggiarsi Menocchio, a parte gli attori con i loro personaggi, tra l’utilizzo di un dialetto stretto e spontaneo e la ripetizione dei protocolli delle sacre scritture. Una messinscena che è l’espressione più completa della pellicola, che deve accettare di non poter puntare sulla propria narrazione. Nonostante il buon utilizzo della regia e della fotografia, la storia si presenta immobile, bloccando il film in una fissità prolungata. Il racconto è fermo e così si trattiene tutta l’appassionante diatriba sulla religione e il conflitto con l’eretico, non perdendo mai di intensità perché non ne ha mai acquistata, procedendo invariabile.

Se era il fuoco quello che muoveva Menocchio ed era insieme il fuoco della Chiesa che temeva, ma che decise di affrontare, nella versione filmica di Alberto Fasulo è più la staticità a condurlo, pur sempre con principi fermi, ma privi di concretezza. L’eretico che si lancia in una battaglia, che si rivela più placida di quanto in verità sarebbe dovuta essere.

Menocchio è al cinema dall’8 novembre 2018 con Nefertiti Film.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.5