La città verrà distrutta all’alba: recensione di un remake azzeccato

Non una pietra miliare del genere o un capolavoro, ma La città verrà distrutta all'alba (2010) è senza dubbio un onesto e benfatto remake.

In un momento in cui fioriscono gli annunci di remake, reboot, sequel e via dicendo, che agitano paure e riportano alle mente tentativi recenti ben poco lusinghieri, è forse giusto omaggiare uno di quei remake che invece ce l’hanno fatta: La città verrà distrutta all’alba (The Crazies il titolo originale) è ancora oggi ritenuto il migliore tra quelli realizzati partendo dalle opere del leggendario George A. Romero.
Diretto da Breck Eisner e sceneggiato da Scott Kosar e Ray Wright, il film (uscito nel 2010) è il rifacimento del grande classico horror sci-fi del 1973, passato in modo quasi anonimo a suo tempo ma poi diventato (come quasi tutte le pellicole del regista) una pellicola di culto, tra le più amate dagli appassionati del genere.
La trama è sostanzialmente la stessa: nella tranquilla cittadina di Ogden Marsh, fare lo sceriffo per David Dutton (Timothy Olyphant) non sembra il più stressante dei lavori.
Nella sua città tutti si conoscono, nessuno è particolarmente indisciplinato o attaccabrighe, e grazie al suo braccio destro Russell (Joe Anderson), Dutton può concentrarsi maggiormente sulla gravidanza della moglie Judy (Radha Mitchell).
Tuttavia, in breve tempo, in città diverse persone cominciano ad impazzire, lasciandosi andare a gesti di incredibile violenza, dietro cui si nasconde un terribile segreto governativo…

La città verrà distrutta all’alba: un remake degno dell’originale

Dotato di ritmo, di una regia dinamica e assolutamente curata, nonché della fotografia perfetta di Maxime Alexandre, La città verrà distrutta all’alba ha il grande merito di cercare di offrire un iter narrativo in cui verosimiglianza, realismo e tensione dominano incontrastate.
Per carità, non stiamo parlando di una pietra miliare del genere o di un capolavoro, ma di un onesto e benfatto remake, che procura più di qualche salto dalla sedia, e che è in grado di divertire e anche di inquietare quanto basta.
Alla base vi sono sempre le inquietudini, i misteri, il crollo della società e del sogno americano, di quell’America di provincia, a metà tra frontiera e paesetto, dove tutti si conoscono, tutti si vogliono bene, dove la routine è amica e coperta che scalda.
No, disse Romero, no ripete La città verrà distrutta all’alba. Quell’America è solo una facciata, un velo di zucchero sopra una civiltà dove chiunque, dai vicini, agli amici, ai colleghi, da un momento all’altro può diventare carnefice, o vittima, o entrambe.

La Città Verrà Distrutta all'Alba, Cinematographe.it

Un film che nega il concetto di Stato e di comunità

Ma La città verrà distrutta all’alba va oltre questa (abusata) disamina della violenza e della paura, di quella paura che attanaglia le grandi pianure, le paludi, la paura degli indiani che diventò paura dei banditi e poi dei criminali comuni, la paura che fa sì che saluti il vicino ma intanto ti compri fucili e pistole perché non si sa mai.
Il remake del cult di Romero, come l’originale (ma in modo ancor più inquietante e visivamente accattivante) ci dona la visione di una nazione dove chiunque è sacrificabile, non in nome di un bene superiore, ma per coprire i misfatti dei vertici.
L’acqua contaminata di Ogden Marsh rappresenta i peccati che ritornano sul suolo patrio, la promessa non mantenuta del sogno americano, dalle tombe ed i reduci del Vietnam e dell’Iraq, il benessere ripetutamente promesso ma mai costruito, la povertà dell’America profonda, quella che vota Repubblicano sempre e comunque pur senza un perché.
Infine, rimane la visione di un mondo in cui valgono solo i rapporti personali più stretti, in cui l’uomo è lupo dell’uomo alla prima occasione, la nazione non esiste, la città non esiste, esiste solo la famiglia, solo chi conosci davvero.

La Città Verrà Distrutta all'Alba, Cinematographe.itQuesto remake, sicuramente, si fa amare dagli appassionati del genere, ma anche da chi ama le metafore cinematografiche, nonché l’ambizione di un film mai pulp, mai machista o involontariamente comico, ed in cui emerge il concetto di mostruosità caro a Carpenter, quella, cioè, dentro di noi, il nostro animo, la nostra mente.
Un horror politico nel senso più maturo, intelligente, che fa della semplicità ed immediatezza la chiave vincente, unita ad un’ottima suspense, un cast di ottimo livello e colpi di scena azzeccatissimi.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.3