Il giudice e il boss: recensione del film di Pasquale Scimeca
Un racconto verista che si prefigge di essere quell'anello mancante nella narrazione dei fatti su Cosa Nostra.
Parlare della criminalità organizzata al cinema e in TV significa troppo spesso spettacolarizzare fatti e personaggi divenuti tristemente noti: ma cos’è la mafia e come è nata? Pasquale Scimeca, regista del film Il giudice e il boss, presentato al Taormina Film Festival 2024, sembra voler dare una risposta a questa domanda, portando alla luce gli episodi e i nomi che hanno preceduto le grandi stragi di Cosa Nostra.
Lo fa con un approccio profondamente verista e a tratti documentaristico, lasciando che i fatti ci travolgano senza indugi, come se fossimo lì, tra lo scontro armato, tra gli accordi, l’incomprensione, la paura e la corruzione. È una visione che ci richiede il tempo di adeguarci alla psiche del giudice Cesare Terranova, magistralmente interpretato da Gaetano Bruno, di intrufolarci nello sgomento di chi lo circonda, talvolta senza intuire fino in fondo ciò che sta accadendo.
Un racconto verista sulla nascita della mafia e sulla figura del giudice Cesare Terranova
Adoperando uno stile verghiano, Scimeca fa molti passi dentro la narrazione: il nostro sguardo è quello senza paura del giudice Terranova, ma è anche quello fiducioso del suo più fedele alleato, il maresciallo della polizia Lenin Mancuso (Peppino Mazzotta) e, ancora, quello carico di vendetta e livore del boss di Cosa Nostra Luciano Liggio (Claudio Castrogiovanni).
Siamo in un mondo arcaico – la Sicilia tra gli anni ’60 e ’70 – in cui Cosa Nostra non è ancora ciò che sarebbe diventata da lì a poco, Totò Riina è ancora un giovanotto che tenta di farsi strada tra i Corleonesi e gli altisonanti nomi di Falcone e Borsellino sono ancora lontani dagli eventi storici tristemente noti.
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Il giudice e il boss si fa dunque carico di narrare quel segmento storico che molti ignorano, tratteggiando il volto primitivo di una mafia fatta di banditismo, citando fatti spesso dimenticati, come la strage di braccianti di Portella della Ginestra orchestrata da Salvatore Giuliano (“Ho capito che mafia, massoneria, servizi segreti sono la stessa cosa, sono serpenti velenosi che hanno dato vita al peccato originale, la strage di Portella delle Ginestre“, dice Terranova a Mancuso) e il modo in cui Cosa Nostra divenne un’organizzazione vera e propria, nonché il consolidarsi dei rapporti col mondo politico (in queste circostanze appare la figura di Vito Ciancimino).
Tutto questo si coagula nella lotta intrapresa dal giudice Cesare Terranova e dal maresciallo di polizia Lenin Mancuso contro il boss mafioso Luciano Liggio e le istituzioni facilmente corruttibili. Una lotta che ci avrebbe evitato di ricordare le grandi stragi, se solo il processo che si tenne a Bari nell’estate del 1969 avrebbe realmente condannato i boss e i picciotti della spietata mafia dei Corleonesi. Ma le istituzioni, come sappiamo e come il film ci mostra, cedettero dinnanzi alle minacce e Terranova rimase solo e umiliato, condannato a un destino che la pellicola non mostra ma che chiunque può facilmente dedurre.
Nella scelta di occultare certe scene il regista e sceneggiatore (insieme ad Attilio Bolzoni e Nadia Terranova) del film si dimostra rispettoso, perché in effetti il mondo cinematografico ci ha addestrati bene nel capire i meccanismi della malavita organizzata. Al contempo, però, Scimeca perde il filo del realismo, la sua macchina da presa avrebbe potuto fornirci ulteriori dettagli, scavare più a fondo anche nella psicologia degli uomini d’onore, ma cede il passo all’eccessiva sobrietà.
La performance del già citato Gaetano Bruno ci concede di toccare con mano il coraggio, l’audacia e il senso civico del giudice Terranova, in un’interpretazione che oltrepassa la somiglianza fisica per giungere al fulcro della veridicità. Lo stesso possiamo dire, in effetti, per tutto il cast, che gode di mostri sacri del cinema come Peppino Mazzotta e Claudio Castrogiovanni, ai quali si aggiungono anche Naike Anna Silipo, Marco Gambino, Rita Abela, Vincenzo Albanese, Marilù Pipitone, Rosario Minardi, Omar Noto, Sergio Vespertino, Antonio Curcio, Giovanni Arezzo ed Enrico Lo Verso.
Il giudice e il boss: valutazione e conclusione
Avviandoci alla conclusione, possiamo asserire che Il giudice e il boss si prefigge di essere quell’anello mancante nella narrazione dei fatti di Cosa Nostra, promettendo estremo realismo, salvo poi cedere all’illusione. Tuttavia, se l’obiettivo dell’autore era quello di piantare un seme nella nostra coscienza, di fare luce su fatti che la maggior parte ignora, possiamo dire che è riuscito nell’intento di stimolare curiosità e voglia di saperne di più, poiché a un pubblico colto sarà facile orientarsi nel marasma di certi eventi di cronaca, mentre a chi ha udito di striscio certe storie verrà forse più complicato carpirne i dettagli e allora avrà voglia di conoscere, di andare oltre la scorza della spettacolarizzazione, per scoprire ciò che Terranova per primo aveva in fondo intuito: la mafia c’è ed è implicata con la politica, col potere, con tutti noi. Nasconderci dietro a un dito non serve a estirparla ma solo ad alimentarla.
“Le posso fare una domanda? Lei nei miei occhi vede paura?”: con questa frase Terranova inchioda il suo sguardo fiero e deciso in quello di Liggio e questa espressione basta a delinearne la grandezza.
Il film, prodotto da ARBASH in collaborazione con RAI CINEMA, con il contributo del MiC – DGCA – e con il contributo della REGIONE SICILIANA – SICILIA FILM COMMISSION “Realizzato nell’ambito del Programma Sensi Contemporanei Cinema” con il Patrocinio del Comune di PETRALIA SOTTANA e della BANCA POPOLARE DI RAGUSA, si avvale della fotografia di Uliano Paolozzi Balestrini e di Francesco Principini, del motaggio di Francesca Bracci, delle musiche di Giovanni Sollima; il direttore di produzione è Christian Bonatesta, le foto di scena sono di Giovanni Di Lorenzo ed Hermes Giuseppe Scimeca; produttrice esecutiva Linda Di Dio.
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