A dog called Money: la recensione del documentario con PJ Harvey

A dog called Money è un viaggio intimo tra Kosovo, Washington e Afghanistan, composto da sguardi, fotografie e note, musicate e scritte sulla carta da PJ Harvey. Ad accompagnarla c'è la macchina fotografica di Seamus Murphy che ne firma anche la regia.

Scorgere nella geografia di luoghi dilaniati dalla guerra come il Kosovo e l’Afghanistan, dove i conflitti non hanno mai avuto fine e bussano alla porta come ospiti inaspettati, un percorso che conduca alla memoria spolverando le macerie del presente ai fini di comprenderlo nella sua interezza: è questo quello che prova a fare PJ Harvey, trasformando in un progetto artistico e musicale le sensazioni raccolte accompagnata dal pluripremiato fotografo Seamus Murphy, documentato da A dog called Money.

Il documentario non è solo la testimonianza di un viaggio, svoltosi tra il 2011 e il 2014, che ha dato origine ad un album di ampio respiro, ma è anche il film documentario che inaugura la piattaforma Wanted Zone – Il cinema libero e indipendente, dando a questo progetto l’aurea di un cinema che fa memoria per provare a comprendere il presente. Un processo che mai come adesso, con i tempi che corrono, ci appare quanto mai necessario.

Il documentario infatti sarà visibile il 21 Maggio alle ore 19 e alle 21 sulla piattaforma, acquistando il biglietto dal sito del proprio cinema di riferimento oppure su Wanted Zone.

A dog called money: Pj Harvey viaggia componendo un album

Si apre con lo scenario di un vecchio teatro ricoperto di pietre e macerie A dog called Money, come a darci l’impressione che tutto parte dai resti, quello che resta di antico ma anche quel che resta di quel passato nel presente. Pj Harvey insieme al fotoreporter Seamus Murphy non vuole darci una possibile comprensione di ciò che vede e di chi incontra nel suo viaggio, ma piuttosto raccogliere il peso delle sensazioni che si provano in paesi dove i ricchi sono poveri e i poveri sono ricchi, come afferma lei stessa camminando tra le strade di fossi e fango dell’Afghanistan o sui sentieri di pietra del Kosovo.

A dog called Money - Cinematographe.it

Poi ci sono i due volti di Washington, quella dabbene e turistica dove i suoi colori bianchi e verdi si scontrano con l’altro volto, le strade di periferia dove i ragazzi neri trovano consolazione nella musica convivendo con la criminalità: per loro perdere un familiare o ricordarsi che in quella strada o in quell’edificio un parente è morto o si è sparato è una realtà ordinaria. Eppure qui è il luogo dove tutto si decide, dove c’è il cuore pulsante di gran parte degli scenari che si ripercuotono sul mondo: un luogo che per il suo potere decisionale sembra poter risolvere tutto, o quasi.

The Hope Six Demolition Project: un album che si fa story telling

Nasce così The Hope Six Demolition Project nel 2016, il cui titolo fa riferimento alla Hope VI, programma statale edile statunitense volto a demolire l’edilizia popolare in zone ad alto tasso di criminalità, con la conseguente difficoltà dei residenti di poter sostenere un tale progetto di ricostruzione.

Al contrario invece, l’album della Harvey ricostruisce i vissuti che ha incontrato attraverso il suo flusso di storytelling interiore, registrando alla Somerset House di Londra in sessioni aperte al pubblico. Una registrazione musicale si trasforma così in un’installazione di arte visiva e sonora, che deve aver fatto grande piacere a chi ama PJ Harvey e la sua musica.

PJ Harvey A Dog Called Money - cinematographe.it

Una sessione di registrazione quindi, normalmente riservata solo agli addetti ai lavori, si trasforma in una forma di storytelling aperto al pubblico, a cui è concesso di entrare nel laboratorio di creazione dell’artista. Il documentario ci propone visivamente proprio il processo di creazione vissuto dalla stessa artista inglese: alle immagini accompagnate dagli appunti della Harvey, si alternano le canzoni che prendono forma in questo studio anticonvenzionale riportandoci ai luoghi, alle persone, alle fotografie che le hanno ispirate.

La voce acuta e sottile di PJ Harvey si fa così, accompagnata dai musicisti che l’affiancano da sempre, testimone di un viaggio di sensazioni e riflessioni che arrivano come echi lontani a chi in qualche modo guarderà sempre con estraneità e fascino a luoghi dilaniati dalla guerra, custodi di segreti a cui ci si accosta sempre con delicatezza.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 3
Sonoro - 3
Fotografia - 2.5
Emozione - 3.5

2.9