L’Alligatore: recensione finale della serie TV Rai di Daniele Vicari

La conclusione de L’Alligatore è una rievocazione delle origini. L’ennesima ingiustizia getta (forse) le basi per una prossima stagione mossa ancora una volta dalla voglia di rivalsa. La nuova serie tv di Daniele Vicari con Matteo Martari e Thomas Trabacchi è disponibile su Rai Play.

Un colpo di scena inaspettato. Un conflitto a fuoco che si conclude con una perdita e che simultaneamente porta a termine la prima stagione di una storia inedita, accattivante, dal gusto internazionale. L’Alligatore, la nuova serie tv hard boiled diretta da Daniele Vicari ed Emanuele Scaringi e disponibile su Rai Play, segna una delle pagine migliori della serialità italiana del 2020 in un panorama televisivo che per tradizione è restia a dar spazio a racconti e personaggi così ruvidi e stridenti rispetto al classico eroe nostrano a cui siamo abituati. E proprio quel colpo di scena sospeso, ma mai così drammatico, getta le basi (si auspica) per una seconda stagione che a quanto pare proprio in quei valori di ingiustizia e vendetta potrà scavare i solchi necessari a far muovere un secondo racconto.

L’hard boiled della laguna veneta con l’anti eroe Matteo Martari

l'alligatore cinematographe.it

Tratto dalla serie di romanzi di Massimo Carlotto, L’Alligatore racconta attraverso 8 episodi (4 puntate divisa ciascuna in due parti) le vicende post carcere di Marco Buratti (Matteo Martari) detto l’alligatore, che dopo aver scontato sette anni di ingiusta detenzione per aver protetto l’amico e reporter ecologista Max detto “La Memoria” (Gianluca Gobbi), si proclama detective senza licenza ed inizia ad indagare su crimini, soprusi ed omicidi nei meandri una Padova oscura e provinciale. Accanto a lui Beniamino Rossini (Thomas Trabacchi), contrabbandiere milanese conosciuto in carcere che nonostante la pena ormai scontata conserva una forte attitudine verso le armi. I due condividono la volontà di riparare ai torti e alla violenza subite in prigione e stabiliscono un’alleanza volta a far emergere i segreti dietro all’alta borghesia padovana tra omicidi, narcotraffico e sversamento di rifiuti illegali guidati dall’imprenditore milionario Tristano Castelli (Fausto Maria Sciarappa).

Il duo Martari – Trabacchi è vincente (e avvincente)

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Oltre al Delta del Po, che in questa narrazione sembra imporsi nella sua doppia veste da personaggio oltre a quella di paesaggio, tra l’alligatore e Beniamino scorre un altro fiume comune: le violenze e gli abusi in carcere. Gli sceneggiatori Andrea Cedrola, Laura Paolucci e Massimo Carlotto danno forma ad una coppia di uomini sconfitti, umiliati, ai margini della società; due uomini che hanno incassato e nel condividere i ricordi delle botte subite, la nostalgia della nebbia fra le quattro mura e un perenne malessere interiore, s’intendono subito e con mezzi e modalità al limite del legale – senza farsi mancare qualche pistola di troppo –  si addentrano in un mondo corrotto fra criminalità, prostituzione, narcotraffico, rifiuti illegali. Un sottomondo nascosto che lavora celato dall’imprenditoria alto borghese, nelle stanze dei palazzi comunali e giuridici. Il duo Martari – Trabacchi, avvincente nella sottigliezza e nell’ironia da humor nero tutto rigorosamente in dialetto padovano e milanese, conquista lo spettatore per la caratterizzazione inedita di una coppia malmostosa ma attraente, scorbutica ma curiosamente sovversiva.

Nonostante l’apparenza virile, L’Alligatore è l’elegia del (e sul) femminile

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Potrebbe sembrare che L’Alligatore sia una storia di uomini e per uomini e che la parte femminile funga da contraltare romantico di una love story a forma di triangolo almeno nel corso dei primi episodi. In realtà, quello di Carlotto, coadiuvato dallo sguardo lucido e al contempo terreno della supervisione artistica di Daniele Vicari, è un racconto di donne e soprattutto sospinto e trascinato dalle donne, una storia nel quale la femminilità è portatrice di autodeterminazione e manipolazione. Nel corso degli episodi infatti emergono personaggi femminili vittime e carnefici, bersaglio e arma; sono cioè le perdine che muovono l’intera scacchiera della narrazione (come le consorti del boss narcotrafficante colombiano) e al contempo mosse a loro volta da un mondo che le vuole oggetto di piacere, come nel caso delle ragazze albanesi accolte e protette da Beniamino e Sylvie (Maya Talem) per evitarne lo sfruttamento della prostituzione. Nelle donne, l’alligatore Marco trova accoglienza e comprensione, rifiuto e sberleffo e tramite lui tutta una storia in cui la parte femminile non è mai solo mera controparte atta all’esaltazione maschile, ma anzi ne emerge vincente nella sua capacità di ribaltamento delle forze in gioco.

Atmosfere padane fra distillati e suoni blues

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Matteo Martari è L’Alligatore

Come già accennato nella riflessione sulla prima puntata, L’Alligatore riesce a coinvolgere attraverso un’originale densità sensoriale, cogliendo tratti inediti e affascinanti riposti in un lavoro di scrittura, regia, colonna sonora e recitazione ben calibrata e volta alla creazione di atmosfere sospese e nebulose che lo spettatore impara ad assaporare con lentezza, carpendone il fascino maledettamente umano. La colonna sonora naturalistica di una (quasi) perenne pioggia autunnale che sembra maledire una Padova già intrinsecamente maledetta, si alterna a quella musicale (davvero ottime le composizioni originali di Teho Teardo). Elementi che contribuiscono a dare spazio alle sensazioni nostalgiche e dolenti del blues, riflettendo l’appeal accattivante di un personaggio scontroso ma dannatamente ammaliante che trova in Matteo Martari il volto e il corpo perfetto.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.6

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