I miei giorni più belli: recensione del film di Arnaud Desplechin

I miei giorni più belli, Trois souvenirs de ma jeunesse, è un film di Arnaud Desplechin presentato a Cannes e al Biografilm 2016. Le vicende orbitano attorno a Paul Dedalus (Quentin Dolmaire, Mathieu Amalric), un antropologo che vive in Tagikistan prossimo a tornare in Francia per ricoprire un incarico molto nobile al Ministero degli Esteri. Paul lascia temporaneamente la sua compagna e rientra in suolo patrio ignaro che le cose che aveva abbandonato per dieci anni fossero proprio li ad attenderlo. Infatti un funzionario dei servizi segreti lo ferma sostenendo che esiste un altro Paul Dedalus, ma che ha un altro volto, che ha abitato in Unione Sovietica ed è di nazionalità israeliana. Ed è da qui che lui ripercorrerà la sua vita, dovendo spiegare i motivi di quella doppia identità, narrandola ad un poliziotto a spartiti di dolore.

I miei giorni più belli

In adolescenza, durante un viaggio a Minsk, Paul Dedalus cede liberamente il suo passaporto ad un ebreo che viveva in Russia con la sua famiglia: segretati ed emarginati, avevano grosse difficoltà per tornare in Israele, subendo una politica piuttosto repressiva da parte dei soviet. La vera natura del suo viaggio, voluta per lo più da un suo amico d’infanzia, era quella di aiutare quelle persone, facendo da corriere e trasportando soldi e notizie dalla Francia all’Urss. Quel gesto non aveva avuto grossi accadimenti funesti, almeno non fino ad allora. Il suo racconto viaggia senza freni e Paul Dedalus vaga nei suoi ricordi, come se quel poliziotto fosse il suo confessore, un amico al quale dedicarsi e raffrontarsi, come mai gli era capitato. I miei giorni più belli ci traghetta in principio durante la sua infanzia, quando viveva a casa con una madre in preda alla malattia mentale, con un padre opaco e impotente e i fratelli, Ivan e Delphine, che custodiva e schermava dagli attacchi della madre, che troverà poi la sua fine in un atto suicida. Paul Dedalus sembrava essere più forte delle sue tragedie, eppure non perderà occasione per sfuggire da quei turbamenti, trovando asilo a casa della zia, un’eccentrica lettrice omosessuale.

I miei giorni più belli

Le lacune, i detriti sono i veri protagonisti de I miei giorni più belli, un’opera che prova a ricomporre pezzi di esistenza della vita di Paul Dedalus

Il suo viaggio della memoria troverà una dissolvenza proprio nell’arco di vita che unirà la sua adolescenza da studente universitario e l’incontro con Esther(Lou roy-lecollinet). Il volo pindarico lascerà cadere in pezzi la successione temporale della storia poiché, dopo i detriti infantili e il viaggio sovietico, tutto ruoterà attorno a lei, alla sua storia con Esther. Esther è una ragazza che conosce tramite la sorella, eterea e vestale, desiderata da tutta la scuola, attraente, sicura di sé, presuntuosa e volubile. Una ragazza che ricorda le donne dannate di Baudelaire, che, senza esitazioni o compromessi, vive il suo erotismo con una purezza disarmante, un dramma che cela sia il torbido languore della donna davanti al peccato, sia il quesito esistenziale che impone una scelta morale tra gioia e piacere, un quesito che rivela quanto etica e passione hanno realmente poco in comune, e come l’una talvolta giudichi l’altra. La loro vita amorosa è divisa, mai completa, segmentata dalla lontananza, dai tradimenti di lei, e poi più raramente di lui, dai ritorni, le lacrime, le lettere che evocano quanto di male e di bene riescano ad addossarsi. Paul Dedalus studia antropologia fuori da quel microcosmo di periferia e lei lo attende tra le mura di casa e quelle di ultima classe di liceo. I suoi anni o momenti felici sono macchiati di rabbia, dolore e studi incessanti. La capitolazione della sua vita subisce una ricapitolazione quando viene esplicata ne I miei giorni più belli, e, in seconda istanza, quando si incontra con un vecchio amico con il quale condivise la passione per Esther. Esther è la compagna con cui dividere tutto, passione, tempo, sguardi, centimetri di pelle, lei è la compagnia di tutti ma solo Paul è riuscito a possederla realmente: l’amore è un terreno scalfito solo da lui.

I miei giorni più belli

Il greco, Platone: ne I miei giorni più belli c’è molta scolastica, i miti, i versi, l’alfabeto sono presenze che accrescono con forza l’amore per le cose perdute, per l’antropologia, che determinerà gli studi parigini di Paul, mentre Esther lo attenderà come una giovane Penelope in modo tanto doloroso quanto libertino, attenderà il ritorno ad un’Itaca franco-periferica del suo Ulysses. Lei che incarna in modo antitetico e mirabile Circe, la Grazia, l’Arcadia, è una summa di topoi delle tradizioni più disparate, potrebbe essere una figlia diretta delle opere rocambolesche di Aristofane, o delle tragedie di Euripide, sadica, dissoluta e succube del suo amore. Quella bramosia incessante le dà carattere, luce, è l’unica cosa che le apporti incertezze e tribolazioni, lei che è venuta su tra sguardi di super approvazione maschile e i suddetti in fila per i suoi ossequi, più fisici che mentali. Paul è l’unica grande incertezza della sua vita, perpetua e per certi versi dissipa quell’amore perché non riesce a rinunciare alle attrazioni fugaci, al mistero della sua bellezza, non rinuncerà mai ai suoi ammiratori che come presi da una frenesia, accorreranno alle sue ginocchia in preda ai deliri, dimentichi di essere talvolta amici di Paul, alcuni più di altri.

I miei giorni più belli

Dedalus è una figura machiavellica, un po’ cabalistica, spudoratamente sincera ma che trattiene la complessità della sue scelte, non svela mai le sue ansie, le sue paure e di come esse poi tratteggeranno il suo carattere, il peso nocivo delle conseguenze che protrarrà in età adulta, quando non perderà occasione di sbottonare il suo declino a due sconosciuti di circostanza, livellare ciò che ha affrontato e cogliere quanto poco sia riuscito ad andare avanti. Dedalus, ne I miei giorni più belli, è contemporaneamente il padre che non ha mai avuto, il fallimento, l’ardore, la sofferenza che entra in una caverna, declinata unicamente dal suo passato; cambia verso come la si guarda, tanto da perdere ogni riferimento, l’entrata comincia a somigliare ad un’uscita d’emergenza quando non si seguono alcuni passaggi o non si collegano bene i ricordi, perché dettati dal dolore e non dal tempo in divenire, è più una cronologia emotiva che reale. Le lacune, i detriti sono i veri protagonisti de I miei giorni più belli, che nella traduzione del titolo lascia ben sperare che si parli di una favola o di una commedia agrodolce con piccole pillole di riconciliazione ma Trois souvenirs de ma jeunesse, tre ricordi della mia giovinezza, è un’opera che prova a ricomporre pezzi di esistenza della vita di Paul Dedalus, primo della sua infanzia, dove lotterà per non farsi inabissare dai continui attacchi della madre, affetta da paranoie e instabilità mentali, il secondo in cui ricorda il viaggio in Russia, a favore della libertà di un israeliano perseguitato, motivo che lo condurrà ad essere indagato dall’FBI, e ultimo e determinante la sua doppia vita da studente squattrinato e allievo della celebre antropologa Behanzin e quella inconclusa e frenetica con Esther: l’una evolutiva densa di sacrifici, l’altra fragile quasi urgente e bisognosa di essere rammendata, l’una fugace, l’altra lenta.  Il vero amore non ci è concesso, o almeno così affermano. E forse lo afferma anche Desplechin che, con I miei giorni più belli, delinea le vette e le pianure ingloriose di una vita fratturata dalle privazioni. Paul non riesce in nessun modo a dimenticare l’impossibilità di aver vissuto Esther in toto, dovendo allontanarsi da lei per tornare ad una vita da studente e alla consapevolezza di non avere mai una realtà stabile a cui fare appello, una casa propria, una speranza di continuità, un’intimità da poter difendere: la sua sarà sempre minata dalle debolezze e dai doveri, quello di Paul e Esther è un amore dal mancato finale, dissacrato, consumato e minacciato dall’urgenza di vivere.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 4

3.5