La Pazza Gioia: intervista a Paolo Virzì e al cast del suo nuovo film

Risate, commozione ed applausi alla proiezione stampa di Roma de La Pazza Gioia, l’ultimo film di Paolo Virzì, in uscita al cinema il 17 maggio in 400 copie dopo il passaggio a Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. Una commedia amara e profonda che vede protagoniste due donne (Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti) provenienti da background sociali opposti ed incompatibili anche caratterialmente trovare nella malattia mentale e nella convivenza presso una comunità terapeutica un punto comune che le porterà a vivere un’avventura rocambolesca alla ricerca della felicità. Ecco cosa ci hanno raccontato il regista ed il resto del cast.

Paolo Virzì, La Pazza Gioia sarà presentato a Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. Qual è il suo stato d’animo in proposito? 

“Per me questa sarà la terza volta la Festival di Cannes ed è un piacere, un onore e anche una sorpresa. Eravamo pronti ad uscire a marzo, poi a fine gennaio  arriva la lettera del direttore  della Quinzaine che ci chiede di rinviare l’uscita del film. È una sezione che ho sempre amato,  promotrice di un tipo di cinema innovativo e affascinante. Sarà una grande emozione condividere la scena con Giovannesi e Bellocchio”.

Paolo, dove ha trovato l’ispirazione per parlare del mondo della salute mentale? E perché ha scelto proprio Valeria e Micaela?

“I casi umani che si incontrano nella vita quotidiana. Tutti i personaggi del film sono in qualche modo dei casi clinici, la psicopatologia corre sotto le storie di tutti noi. La scelta di Valeria e Micaela risale principalmente al loro primo incontro causale sul  set de Il Capitale Umano. Ho intravisto Beatrice in Valeria fin da una scena che abbiamo girato in cui la signora Bernaschi perdeva la testa. Poi dal primo momento in cui l’ho vista da lontano parlare con Micaela, che mi aveva raggiunto per farmi una sorpresa, ho avuto la tentazione di spostare la telecamera e riprendere la loro interazione. Camminavano tenendosi per mano e Valeria guidava con fare deciso Micaela, che la seguiva con un misto di fiducia e di terrore.  Credo che in quel momento sia nata l’idea de La Pazza Gioia. Appena ho buttato giù l’idea ho raccontato l’episodio a Francesca Archibugi, con cui condivido una grande amicizia e numerose collaborazioni professionali. Con lei  condivido anche la passione per la psicopatologia, siamo una calamita per i casi clinici, forse vedono in noi lo stesso smarrimento e disperazione”.

Valeria e Micaela, come avete lavorato per la costruzione di personaggi così belli ma altrettanto complicati?

 Valeria: “ho letto questa sceneggiatura e ci ho visto, come raramente capita, una contemporanea chiarezza e complessità dei personaggi. La mia preoccupazione era solo essere in grado di  portare in scena un personaggio di tale grandezza. Il lavoro che ho fatto, allora,  è stato chiedere al  mio super-io  di andare in vacanza e vedere cosa succedeva. Ho più decostruito che costruito”.
Micaela: “la pazza gioia è un’euforia irragionevole, dietro quest’incontro fra le protagoniste del film  c’è una grande terapia, mediata dal contatto che si crea, pur provenendo da ambienti sociali molto differenti. Donatella è una donna che ha sofferto e soffre di enormi deprivazioni affettive, nessuno le ha voluto bene e ha incassato numerose umiliazioni. La scrittura era bellissima, non ho dovuto fare molto, Paolo e Francesca hanno lavorato in grande sinergia. Per calarmi nel personaggio ho fatto solo degli incontri, ho frequentato degli ospedali psichiatrici per capire da dove partire. Sono partita dall’estetica di Donatella e poi ho cercato di rendere giustizia alla sua interiorità di donna che vuole chiedere perdono al suo bambino per non essere stata la madre che avrebbe dovuto essere”.

Paolo, come ha fatto a trovare il giusto equilibrio fra realismo e fiaba, nel raccontare questa storia che a tratti sembra allontanarsi dal possibile?

Per me La Pazza Gioia è un film  realistico con momenti da commedia avventurosa e trip psichedelici, consideriamo che ci troviamo di fronte a delle pazienti che soffrono di  farmacodipendenza  e sono in astinenza da farmaci antideliranti. La macchina da presa vede attraverso i loro occhi ma le situazioni  che si creano restano possibili. Il film vuole essere anche un’ esplorazione su quello che le istituzioni offrono per quanto riguarda il problema del disagio mentale, argomento che spaventa una società che preferisce stigmatizzare delle persone che soffrono, anche relegandole a fare terapie innovative, basta che sia altrove. Fuori da quelle comunità, invece, il mondo è fatto da altrettante persone apparentemente normali che hanno a che fare con la psicopatologia. Sul set, con i veri pazienti, anche noi eravamo tentati di usare psicofarmaci, abbiamo condiviso la situazione, ho ricevuto pure una diagnosi e un consiglio farmacologico su come curare i miei disturbi (ride, n.d.r.)!. Io non ho mai visto chi ha problematiche mentali come un diverso, secondo me bisogna aver paura di chi ha paura della pazzia”.

la pazza gioia paolo virzì

Ne La Pazza Gioia vediamo finalmente una solidarietà femminile autentica, non  mediata dal rapporto con un uomo o per situazioni frivole. Perché hai voluto parlare di questo aspetto delle donne, e cosa hai imparato da loro?

“Le donne mi interessano perché forse lo sono un po’ anch’io, forse perché non distinguo la scrittura al femminile, gran parte dei personaggi femminili cinematografici o letterari sono stati  scritti da uomini. Amo i film con protagoniste le donne, ma non come eroine edificanti, amo le donne sbagliate o escluse,  stigmatizzate come poco di buono. ll fatto di aver scritto questo film  con Francesca è stato un aiuto prezioso, ridevamo e piangevamo mentre scrivevamo questa sceneggiatura, c’era una nota di identificazione in queste creature bellissime, struggenti e buffe. Sento che ne La Pazza Gioia ho dato sfogo al mio lato femminile, che spero di non aver esaurito, rappresentando una cura che ha il volto della relazione affettiva, anche bellicosa e complicata. L’accudimento e la preoccupazione reciproca son la vera terapia.

Il film presenta un delicato equilibrio anche fra comicità e commozione, si ride e si piange a distanza di pochi minuti. Valeria e Micaela, come avete mantenuto questo equilibrio? Che rapporto avete voi con la follia, l’avete mai toccata con mano?

Micaela: “con Valeria ci siamo conosciute sul set e abbiamo cominciato il nostro percorso, man mano Paolo ha svelato la storia dei nostri personaggi spiegandoci perché sono donne considerate sbagliate e perché sono finite in quella comunità. In realtà Beatrice e Donatella sono principalmente  donne umane, la vita è complicata e  a volte non si riesce a stare nella società, qualcuno deve prendersi cura di te. L’incontro tra loro è importante, Donatella ammira Beatrice e la sua voglia sfrenata di vivere e conoscere e si lega a lei. Sul set a volte abbiamo bisticciato, così come i nostri personaggi, abbiamo vissuto le loro stesse emozioni, ci siamo esaltate, volute bene e divertite. Nella vita privata sono entrata in contatto con il disagio mentale soprattutto di psicologici che sembravano più pazzi dei pazzi.”
Valeria: “non so come ho fatto a far ridere e piangere, il tragicomico è già nella scrittura, poi abbiamo cercato il gusto, la musica giusta, la sintonia, quando questa veniva a mancare e prevaleva un lato, lo sentivamo subito e spesso era questione di modificare la velocità di gesti e parole, che doveva contrapporsi alla malinconia: bisognava trovare la gioia per non morire di malinconia. Forse è questo che fa ridere e piangere insieme, ma non è stato ricercato, era semplicemente la direzione in cui dovevo andare. Per quanto riguarda il mio personale incontro con la follia, ho fatto anch’io molte terapie anche se non si vede tanto (ride, n.d.r.). Torno sempre dalla stessa dottoressa, è il mio nido, non so a cosa mi serva ma mi renderebbe triste lasciare. La follia la conosco perché io stessa mi sento non pazza, ma nemmeno non-pazza, diciamo molto familiare con i pazzi. Non vedo la frontiera, io forse riesco solo a funzionare un po’ meglio nella società, anche grazie all’ipocrisia, al super- io. Chi va al di là della frontiera  ed impazzisce, invece, non riesce a farlo e lascia che il suo malessere esploda.  Io dentro, in realtà, sono disperata come loro”.