Pollock: recensione

Genio e sregolatezza.
Due caratteristiche che sembrano un cliché ma che descrivono al meglio Jackson Pollock.
Il pittore, tra i più importanti dell’arte moderna, pioniere dell’action painting che con i suoi quadri e lo stile dripping rivoluzionò il mondo della pittura, è stato, sembra ombra di dubbio, un genio, e uno sregolato.
A raccontarcelo al cinema è stato Ed Harris, al suo esordio come regista nel 2001, in un progetto a cui ha dedicato passione e impegno, e che lo vede, tra l’altro, anche nei panni del protagonista. Di quest’ultimo viene messa in scena l’intera parabola di vita, a partire dall’iniziale insuccesso, per poi arrivare agli anni della fama e alla rappresentazione della caduta libera che condusse il pittore alla tragica morte.
Anni contrassegnati e profondamente segnati dalla dipendenza di Pollok dall’alcool, vizio che lo portò a vagabondare per le strade di New York come un barbone, a sfuriate indicibili, ad avventure. Tutto quanto sotto gli occhi di una moglie paziente, Lee Krasner, che si occupa di lui, dei suoi affari, del suo nome.Il film inizia proprio con il loro incontro, durante una mostra che li vede assieme, tra Picasso e Braque, esponenti dell’astrattismo.

Ma se Lee Krasner si approccia all’arte in modo più cerebrale, seguendo una corrente, cercando all’interno delle sue opere, ma soprattutto in quelle del suo futuro marito, un significato, uno stile, Pollock è istintivo, anche se mai casuale, dal suo punto di vista il vero protagonista di ogni opera è il quadro, non certo il suo significato, non certo il suo autore.
Con la sua arte provocatoria, audace, forte, conquista i nomi che contano, ad esempio quello di Peggy Guggenheim, ma questo non basterà ancora a cambiargli la vita: gli affari latitano, i suoi quadri non si vendono, a differenza di quei nomi che circolano e superano il suo. Tutto ciò finisce per finire profondamente un ego come il suo, sempre più ingombrante.

Pollock

La soluzione migliore sembra allora quella di fuggire dalla città, per rifugiarsi in campagna, in una casa da sistemare e da condividere, in cui poter ricominciare, senza l’aiuto dell’alcool. È cosi che Pollock riuscirà a riprendere in mano la situazione e fare il salto di qualità. Si tratta di quelli che saranno gli anni più belli, della gloria, della nuova tecnica del dripping che Harris ci spiega, come un maestro, come un insegnante, facendoci scoprire e rivedere quei quadri con occhi tutti nuovi. Il pennello che non tocca la tela, la vernice non gettata a caso, ma che segue la volontà del pittore, il gesto che si fa azione, che si fa pittura.

Jackson Pollock: il gesto che si fa pittura

Ma dopo la gloria, dopo gli articoli, i filmati, le interviste, le grandi vendite, di nuovo crollano tutti sogni. Il protagonista affronta la crisi del proprio matrimonio, in cui si insinua un nuovo amore, della propria pittura, che sembra già superata, e la crisi di un uomo, se stesso, incapace a gestire il tutto, che si rifugia nuovamente nell’alcool, anestetizzandosi, fino alla fine.
Come tutti i geni, come tutti gli sregolati, Jackson Pollock è un uomo, un protagonista, difficile da gestire. La simpatia nei suoi confronti è difficile da far arrivare, e Ed Harris lo sa, non edulcora il suo pittore, ce lo mostra in tutta la sua crudeltà, in tutta la sua cattiveria, donando anima e corpo in questo. Un corpo, poi, quanto mai simile a quello originale.
Suscita pietà, invece, Lee Krasner, la donna dietro l’uomo, la moglie che lo gestisce, che lo subisce, che lo perdona, che si isola e che dopo la sua morte amministrerà le sue opere in modo da far arrivare fino a noi, fino ad oggi il suo nome. Interpretata con forza ed energia da Marcia Gay Harden, giustamente premiata con l’Oscar come Miglior attrice non protagonista nel 2001.

Pollock

Nel mezzo, tanti comprimari di gran classe, dal Jeffrey Tambor esploso ora e vincitore di Emmy e Golden Globe con la serie TV Transparent, Val Kilmer nelle vesti di Willem de Kooning, Jennifer Connelly in quelli di un’amante sfacciata, Ruth Kligman, pittrice anche lei, che ama Pollock, ma che non lo sostiene. Seppur relegata nel minutaggio finale dell’opera, la Connelly, di cui oggi viene festeggiato il compleanno, riesce a lasciare il segno pure qui, con la sua grazia e la sua bellezza esaltate in un personaggio sensuale, che in sottoveste o in costume da bagno si fatica a dimenticare. Ma c’è ovviamente di più in Ruth Kligman da mostrare, c’è un amore diverso, più passionale, ma meno cerebrale rispetto a quello di Lee Krasner.
Pollock è così un film biografico di quelli classici, in cui la narrazione è lineare e rispettosa, in cui la vita del protagonista ci viene raccontata nelle sue fasi salienti, senza guizzi.
Così facendo, conosciamo meglio quel genio e quello sregolato che è stato Jackson Pollock, avvicinandosi alla sua arte, al suo stile inizialmente incomprensibile, troppo astratto, troppo casuale verrebbe da dire. Ma oggi, grazie ad Harris, sappiamo che il caso nei suoi lavori non esiste, e che per capire le grandi opere, ci si deve avvicinare lasciando fuori tutto il resto, con sguardo vergine, capace di farsi travolgere da quanto il quadro, o una vita, ha da suscitarci.

Giudizio Cinematographe

Regia - 3.2
Sceneggiatura - 3.2
Fotografia - 3.2
Recitazione - 4
Sonoro - 3.2
Emozione - 3.2

3.3

Voto Finale