Romanzo criminale: recensione del film di Michele Placido

Chi vive i nostri giorni e ha avuto l’eventualità di essere presente e legittimo negli anni ’70 subisce un déjàvu molto sottile e ben assestato, come un pugno nel petto. Vedere Romanzo Criminale (2005), e vivere nel 2015 in Italia, ti rende consapevole del fatto che la banda della Magliana fino a un anno fa la si pronunciava con toni incespicati e remissivi, come chi si trova davanti un dipinto ingiallito dal tempo che ha perso i lineamenti originali, chi lo guarda ne coglie l’essenza ma non è tanto convinto di saper pronunciare il titolo o l’autore.

Romanzo criminale: Mafia Capitale ieri e oggi

Questo film sembra parlare al passato prossimo e ciò che sbalordisce ancora di più è che venga avvertito al passato remoto, un quadro sbilenco e inchiodato male che descrive quell’Italia asservita e uggiosa, i nostri veri anni di piombo di cui credevamo esserci liberati. Il film diretto da Michele Placido si inserisce in un momento che vedeva Massimo Carminati, dieci anni fa ed esattamente ad aprile, condannato dal Tribunale di Perugia a quattro anni di reclusione per il furto al caveau della Banca di Roma; personaggio marginale ma presente nel film, denominato il Nero e ben interpretato da Riccardo Scamarcio.


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La sensazione che si percepisce entrando in contatto con la pellicola è la pluralità delle voci prodotte, alcune bisbigliano altre troneggiano meglio di altre. Ed in questo coro dissonante svettano tre personaggi principe: il Libanese (Pierfrancesco Favino), il Dandi (Claudio Santamaria) e il Freddo (Kim Rossi Stuart). Da ciò ne consegue la divisione quasi spontanea e naturale del film in tre atti, ognuno determinato dall’ascesa e la caduta dei tre imperatori, che si trovano ad usurpare e regnare, in modi e sembianze diverse, ma col risultato che le loro pluralità, più o meno marcate, non si sono trovate che ad essere aspetti differenti della stessa cosa. L’illusione è ciò che governa la pellicola, tanti tipi di essa ma una in particolare: poter regnare su Roma.

Una banda di ragazzi maldestri soggiogati dalla povertà, dal disagio familiare e dalla disaffezione quotidiana in lotta perenne tra la condizione di disadattati-miserabili e quella di riadattabili al lusso, due antagonismi che non possono coesistere. Una dura lectio che questi ragazzi di vita un po’ cresciuti si sono trovati a dover apprendere.

Un poeta conclamò a gran voce che esistono vari tipi di bugie: la statistica, la bugia diplomatica, il comunicato ufficiale e la bugia semplice. In questo caso esse vengono esibite e rappresentate come parte della scenografia e fardello insito della sceneggiatura. La statistica è una cosa tipicamente da economisti, e chi più del Secco (Stefano Fresi) può comprendere il valore del peculato, dell’appropriazione indebita e degli investimenti a breve termine sempre con un margine di errore umano pari a zero. La bugia diplomatica e il comunicato ufficiale sono due coniugi che perseverano sotto lo stesso tetto, può essere un ufficio, un commissariato, una prefettura, un partito. Ma sempre nella condizione di usuraio dell’informazione, un filtro che divide in modo netto crimine e diplomazia, giustizia ed elitismo. La bugia semplice appartiene al Freddo: cerca a tutti i costi di vivere una vita in una misura predeterminata quasi alienante ma con un sotto-testo romantico e surreale per una trama simile, un personaggio che sa benissimo cosa significa perdere e riottenere col sangue, con la filosofia del Est modus in rebus.

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Eppure non tutto è poi così moderato e schivo come il Freddo, anzi il suo compare Libano, pur rimanendo la leva, non riesce ad instaurare una reale confidenza con la storia; sviscerato con sregolatezza, il suo regicidio viene adoperato sul pretesto dell’autodistruzione, premendo male la narrazione sulle ferite e mai punendo le divagazioni reali.

Il Dandi oscilla, un orologio a pendolo, tra le sue bramosie e l’asservimento che ha verso i suoi compari, ma l’unico reale che riesce a rispettare è quello per il Libanese. Un personaggio interessante poiché non capovolge mai la sua natura ma la ritocca prima per mano della sua donna, Patrizia (Anna Mouglalis), e poi per mano del mafioso di Cosa Nostra, zio Carlo (Gigi Angelillo), che lo vuole a tutti i costi a capo dell’organizzazione, in quanto i suoi predecessori poco hanno potuto e hanno saputo dominare.

Loro sono quel che rimane degli accattoni che si riscoprono vitelloni, persone che non hanno mai conosciuto educazione, convivialità, passioni e che non hanno alcun rispetto o aspirazione per il lavoro. Anzi rigettano ogni sorta di idea che li leghi ad un lavoro timbra ed esci. Ma delle persone così faticano a durare, e faticano anche a porre rimedio alle loro mancanze, nascono e crescono senza la possibilità di saper chiedere aiuto, di pentirsi. Finché possono rimangono a galla, sempre ad un passo dall’ergastolo, risucchiati dalla vertigine giudiziaria che li vede tra l’assoluzione e le pene minori. Poi affondano, su una zattera instabile, da pedoni che giocano a fare i re.

Realmente poche sono le questioni che rimangono in sospeso. Il silenzio della politica, delle sue implicazioni mette a tacere tutti. Anche chi guarda. Appellandosi a personaggi innominati del potere e dei servizi cosiddetti segreti, il film viene annichilito appena prima di potersi realmente esprimere, un sussulto pervade lo spettatore che attende ancora oggi con ansia i nomi, non i motivi, ma solo i nomi che causarono il periodo più nero e doloroso della storia. Ed è questo che vorremmo ancora oggi.

Concludiamo con Wilhelm Olbers e con il suo illustre paradosso: come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l’infinità di stelle presenti nell’universo?

Come fa ad essere credibile? Chiedilo all’Italia. Magari questa volta risponde.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.8
Fotografia - 3.3
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3.3
Emozione - 3

3.4